// di Francesco Cataldo Verrina //

Si è spento all’età di 92 anni, Franco Fayenz, saggista, giornalista, ritenuto uno critici di serie A e fra i massimi esperti di musica jazz; fino a pochi anni fa era stato un punto di riferimento dell’intera scena italiana. esercitando la sua ars criticae su alcuni importanti giornali-quotidiani. Non a caso, nel 1992 il Brass Group di Trapani gli conferì il premio «Una Vita per il Jazz» e, nel 2006, il Blue Note di Milano gli ha riconosciuto la sua opera di divulgazione come «un contributo decisivo alla diffusione del jazz in Italia».

Di Franco Fayenz ricordo il suo modo schietto di scrivere, diretto e senza tanti fronzoli. asciutto, sintetico. Franco operava per sottrazione arrivando al nocciolo dell’oggetto del contendere: disco, concerto e artista. Per lungo tempo è stata una delle firme più illuminanti del giornalismo jazz italiano, tra articoli e saggi ed iniziative propedeutiche al genere, ha informato ed erudito a vari livelli più di una generazione di musicofili. Fayenz era diventato negli anni il più importante raccorto tra l’Italia ed il jazz mondiale, in un Paese come il nostro abitato da melomani, dunque lontano per sensibilità ed ostico per natura alla tradizione della musica ritmica ed improvvisata.

Mi sovviene che il mio primo impatto con la scrittura di Fayenz, (ero molto giovane ed ancora fluttuavo tra i vari genere di matrice african-american) fu un piccolo saggio pubblicato dalla Lato Side Editori, dal titolo «Il Nuovo Jazz Degli Anni ’40, Young / Parker / Tristano». Avevo poco più di vent’anni e nei confronti del jazz non avevo ancora maturato talune convinzioni, ma quel libro di Franco mi aprì molte strade d’accesso a quello che sarebbe diventato oggetto di studio per tutta la mia vita, ossia il jazz del dopoguerra. Nato a Padova, una laurea in giurisprudenza, Fayenz aveva trovato nella musica la sua vera espressione: discendente di Emilio Salgari, non era riuscito a trattenere quella passione indomabile per la musica che appagava il suo innato senso di libertà, così come l’avventura aveva soggiogato il suo illustre antenato, tanto che giovane Fayenz cominciò appena ventenne ad organizzare concerti ed a dirigere il circolo Amici della Musica della sua città.

Franco non è stato uno qualunque o soltanto un critico di jazz. Per anni in Italia ha rappresentato l’essenza stessa della narrazione jazz, rafforzata da una sorta di «ipse dixit», per intenderci, l’ha detto Fayenz, a lui questo disco o questo artista piace, quest’altro non gli piace. Era una rappresentazione del jazz dalle tante sfaccettature: lo era nella scrittura, talvolta aspra e poco consolatoria; lo era nei rapporti, negli scambi e negli scontri professionali, sempre a temperatura variabile, legati ad una sorta di improvvisazione relazionale, fatta di polemiche e confronti serrati, senza alcuna concessione alla banalità o ai luoghi comuni. L’aver frequentato, anche per motivi generazionali, alcuni dei più importanti jazzisti, incontrandoli, intervistandoli e scrivendo di loro attraverso l’acquisizione di materiale ed informazione di prima mano, gli ha sempre consentito di avere un osservatorio privilegiato.

Nel 1961 l’esordio nel mondo della scrittura con «I grandi del jazz», seguito da altri saggi come «Anatomia elementare del jazz». Storica la sua curatela dell’edizione italiana della autobiografia di Duke Ellington intitolata «La musica è la mia donna». Fayenz, nel corso degli anni, ha collaborato con la Rai a diversi programmi Radio-TV e con innumerevoli testate, tra cui Il Giornale e Il sole 24 ore, per i quali seguiva eventi come Umbria jazz. Una passione che gli è valsa anche diversi riconoscimenti. Il mio ricordo personale di Franco Fayenz nasce dal fatto che si fosse accorto di me in una circostanza dove a volte regnava il caos e la confusione più totale. Molti anni fa, in un backstage di Umbria Jazz, accalcato da giornalisti e addetti ai lavori, mi disse: «bravo, ho notato che sei uno che fa sempre domande provocatorie, continua così, non ti omologare». Avevo appena rischiato lo scontro (bonario) con Gil Evans, dicendogli che Sting non c’entrava nulla con il jazz o quasi. Con Franco Fayenz se ne va uno degli ultimi baluardi dei un giornalismo vero, autentico e competente, mai asservito alle logiche spartitorie, predatorie e poco meritocratiche dei media italiani.