Michal Urbaniak’s Group – “Polish Jazz Vol. 24″, 1971

// di Francesco Cataldo Verrina //

La Polonia è stata un’ottima encalve jazzistica, con caratterizzazioni ed influenze locali. i jazzisti polacchi sono riusciti a creare un sound molto più efficace e riconoscibile rispetto ad altri paesi europei e con un’originalità non indifferente. Nelle loro composizioni sono spesso presenti violini, fisarmoniche ed altri strumenti poco usati tradizionalmente nel jazz. A tutto ciò hanno concorso molteplici fattori: in primis le condizioni ambientali e politiche, tanto da farne una forma di underground locale con una forza creativa ed antagonista non indifferente; cui si aggiunga il fatto che tanti di questi artisti avevano fatto studi regolari ed erano preparatissimi a prescindere, molti possedevano un background classico ed una notevole conoscenza della musica in genere; non potendo sentire il jazz liberamente ed avere facilmente i dischi americani come nell’Europa dell’Ovest, furono meno condizionati e questo li rende decisamente unici ed originali. 

Un bel giorno arrivarono i Polacchi, ed i cultori del “polish-jazz” cominciaro a moltiplicarsi Urbi et Orbi. E’ convinzione largamente diffusa che nelle musiche dell’Est-Europa vi siano alcune chiavi sonore raccordabili facilmente con quelle del jazz afro-americano. Siamo nel 1971, e la Polonia è soggiogata da un regime repressivo che non vede di buon occhio il jazz, soprattutto vieta l’importazione di dischi americani, anche se consente di suonarlo gli artisti locali. Molti musicisti polacchi hanno spesso raccontato di quanto fosse difficile reperire dischi provenienti dell’occidente di lingua inglese, specie dall’America. Molti si trovavano al mercato nero a costi spesso proibitivi per le possibilità dell’epoca. La polizia di regime, quando scopriva questi mercatini underground e clandestini, dava fuoco a tutto il materiale, jazz o rock che fosse.

Tutti i regimi dell’ex-Soviet osteggiavano ogni tipologia di cultura musicale e letteraria euro-americana di tipo antagonista, in particolare il jazz di fine anni ’60 che era diventato la forma espressiva più evidente di ribellione da parte di un minoranza etnica come gli afro-americani. Quei regimi esaltavano la musica classica e gli autori locali che la componevano, quale orgoglio della nazione, con la complicità indiretta della chiesa cattolica, che per quanto dissidente, vedeva nel jazz e nel blues una sorta di musica del diavolo legata ai riti e alle stregonerie africane. Molti giovani venivano indirizzati allo studio di strumenti meno ritmici e più tradizionali come i violini, non a caso nel polish-jazz oltre alle reminiscenze popolari, sono presenti elementi di marcata classicità.

Michal Urbaniak, infatti oltre al sax soprano, tenore e baritono suona anche il violino, che diventa l’elemento di fusione, ma a tratti discordante e dissonante di questo live set registrato alla Warsaw Philarmonic nel dicembre del 1971, con la complicità Adam Macowizc al piano e all’horner clavinet, strumento molto usato nell’ambito del funk e del reggae, Pavel Jarzebski al basso e Czeslaw Bartkowski alla batteria. L’album si apre con una lungo panegirico di 21 minuti, “Suite-Jazz Jamboree 70”, composta da Urbaniak e suddivisa in tre movimenti: “North Ballad”, che nella parte iniziale riecheggia una danza popolare narrata da un violino ruvido ed a tratti distonico, per poi abbandonarsi ad un piccolo volo libero e planare sul finali su una vera struttura a ballata decantata dai sassofoni; “EJ Blues” (suppongo stia per Elvin Jons Blues) è un ottima progressione modale, dissonante e trasversale, con alcuni tributi ideali pagati allo stile dell’ultimo Coltrane; “Spring” crea un atmosfera acida vagamente fusion, determinata dal clavicordo, ma il movimento melodico-armonico si muove a volo libero con vorticose punte di atonalità, mentre sul filale il violino riporta il tutto in una dimensione quasi classicheggiante, creando un forte contrasto con la sezione ritmica.

La B-Side si apre con “Crazy Girl” firmata da Komeda, il nome eccelso del polish-jazz, ma arrangiata da Urbaniak sotto i fumi di un potente delirio free, nonostante l’urlo distorto del sax in alcuni frangenti, la quadratura melodica non gli sfugge mai dalle mani. “Body And Soul”, acclamato standard riporta la band a più miti consigli, la ma la perifrasi del sax sembra andare oltre un’esecuzione convenzionale. In Chiusura “Jazz Moviment N.1” che, annunciata da un violino dall’incedere flessuoso ed orientale, trova complicità in tutti i registri del sax portato sulle cime tempestose di sound anarcoide ma ben congegnato, sempre attento a non perdere il contatto con la dimensione umana e la soglia di tolleranza dell’ascoltatore medio. Un ottimo disco per gente di sana e robusta costituzione jazz.