The Miles Mavis Sextet – “Jazz At Plaza”, 1958

// di Francesco Cataldo Verrina //

Questo album è stato accantonato dalla critica e poco considerato, non tanto per i contenuti artistici, ma per un evidente precarietà della qualità sonora, che in parte nella recente edizione della Vinyl Lovers è stata corretta, sia pur non raggiungendo un livello audiofilo o esoterico. L’album, finalmente, grazie a questo nuovo remastering si porta al rango di una dignitosa qualità di ascolto domestico. La separazione dell’audio risulta migliorata e nell’insieme i singoli assoli sono stati ben evidenziati.

La sensazione percepita è quella di avere nelle orecchie un equalizzatore di frequenza che consente di poter estrarre ogni singolo solista dal mix; soprattutto ne beneficeranno musicisti e ascoltatori con con spiccate capacità analitiche. Le domande sarebbero molteplici: intanto, quanti posseggono apparati così selettivi o impianti così puntigliosi da rilevare ogni minima imperfezione in un live storico, che rimane un documento assai interessante, se non altro propedeutico allo sviluppo musicale di questo line-up al seguito di Miles Davis? In particolare, ci sarebbe da domandarsi come mai coloro che lo hanno sempre scartato, si esaltano con registrazioni di infimo ordine, provenienti da riversamenti di 78 giri o vecchi nastri, relative anche a nomi importanti come Charlie Parker, Lester Young et simila, oppure si beano dell’abnorme astrusità sonora di taluni CD, dove i suoni sono alterati da una pesante compressione e dalla cosiddetta loudness war?

Alcuni retroscena di questo album: “Jazz At Plaza”, che precede di circa sei mesi “Kind of Blue”, fu registrato in modo informale, presso la Persian Room del Plaza Hotel di New York, durante una festa organizzata dalla Columbia il 9 settembre 1958. Nessuno dei musicisti era a conoscenza del fatto che il nastro stesse riprendendo la loro performance, che avrebbe dovuto essere solo un omaggio agli invitati. L’intero set venne dato alle stampe, ufficialmente come album, il 28 settembre 1973, ma è interessante rilevare che gli stessi brani erano stati già pubblicati, poco dopo la registrazione “informale” della Columbia, alla fine dello stesso anno come “Sessioni del ’58” con l’aggiunta di “Stella By Starlight”. L’album è stato, spesso, liquidato come una jam session registrata a livello amatoriale, ma a torto, poiché nessuno sapeva di essere ripreso: erano tutti molto rilassati e suonarono con grande spontaneità. Analizzando bene il contenuto, ci si accorge che Miles, in alcuni tratti, appare poco presente e Bill Evans un po’ distante, ma fu solo una questione di posizionamento e di ridotto numero di microfoni usati: i sassofoni, risultano solo più presenti, ma qualitativamente e non quantitativamente, e la sezione ritmica leggermente in disparte. In verità Cannonball Adderley e John Coltrane suonano ai massimi livelli, Cannonball, in particolare, sembra il più ispirato. In sintesi la qualità artistica dell’insieme dovrebbe portare l’ascoltatore più attento a trascurare il suono.

Parliamo forse della più grande concentrazione di talenti della storia del jazz moderno in un colpo solo. Non siamo nello “splendore del suono stereofonico”, ma le registrazioni di questo sestetto sono alquanto rare. Ecco dunque l’importanza del disco. Ad abundantiam, va considerato che, nel 1958, le registrazioni dal vivo erano tutte molto precarie e le case discografiche non avevano ancora adottato una metodologia specifica o uno standard, soprattutto non esisteva ancora una tecnologia così evoluta per registrare eventi dal vivo e renderli spettacolari. Ecco il dettaglio: “If I Were a Bell” risulta vagamente debole nel suono, con la tromba di Miles e il basso di Chambers che in alcuni tratti sembrano sfumare, mentre la batteria di Cobb risulta abbastanza limpida. Evans è molto defilato, ma quando Coltrane fa il suo ingresso il suono migliora ed è molto chiaro. Trane si esprime nel suo caratteristico stile spingendo la sezione ritmica verso un cambio di groove e di passo: “Oleo” inizia con l’interazione tra Miles, Coltrane e Cannonball.

Il piano di Evans e la batterista Jimmy Cobb sono evidenti e perfino il basso di Chambers che scandisce il ritmo. Si avverte un brusco cambio di tempo tempo, soprattutto quando i fiati spingono la sezione ritmica. L’assolo di Cannonball è da manuale; “My Funny Valentine” è una magistrale interpretazione di Miles che accenna la melodia, mentre Evans ne segue l’esempio. La sua esecuzione e improvvisazione come solista sono i punti salienti di questa traccia. Il basso di Chambers risulta più schiacciato nel mix totale, ma ciò che suona è di altissimo livello; “Straight No Chaser”, è interpretato con un tempo velocissimo, più di quanto Monk avesse potuto immaginare, ma Miles sembra sul tetto del mondo; dal canto loro, Cannonball e Coltrane fanno fuoco e fiamme. Dunque sembrerebbe che molti critici jazz siano stati più preoccupati della fedeltà sonora che non della bontà del progetto in termini artistici. Tutto è relativo, ma che nessuno, proprio nessuno, abbia considerato la caratura dei musicisti coinvolti, mi sembra un’eresia. Di fronte a nomi del genere, ripresi sia pure inconsapevolmente in momento storico importante, ossia il passaggio dal tonale al modale, non si può restare indifferenti, solo perché un album live del 1958 non mostri un mix perfetto ed una stereofonia adamantina. Siete ancora in tempo per pentirvi. Come già accennato, nella nuova stampa 180 grammi, molti piccoli difetti sono stati corretti.