// di Guido Michelone //

Ho avuto modo di intervista Brian Auger nel 2006 a Milano in un tranquilla conversazione nella comodità di un hotel del centro. Rispetto all’immagine aggressiva che ricordavo da ragazzino quando appariva di frequente in tv assieme a Julie Driscoll e ai Trinity per suonare una musica a noi, studentelli di scuola media, assolutamente innovativa (un soul-jazz venato di psichedelica) il celebre hammonista è in realtà un ‘vecchio ragazzo’ pacato, simpatico, arguto, divertente che nei primi anni Duemila si è rimesso in pista grazie alla riscoperta dovuta all’allora moda imperante dell’acid jazz.

– Incominciamo parlando del tuo disco This Wheel’s On Fire (Castle Music 2005), che in realtà è una compilation…

– Sì, è un Best of, che hanno voluto realizzare in Inghilterra, dove la casa discografica mi ha sottoposto la lista con i brani più famosi da inserire, con Julie Driscoll, i Trinity e gli Oblivion Express, dal ’67 al ’75; io ho cambiato solo due pezzi e credo che alla fine rappresenti molto bene quello che ho fatto attraverso i secoli…

– Era comunque difficile trovare un’antologia così completa, che mettesse ordine a una carriera musicale lunghissima, complessa, variegata…

– Sì era difficile, perché avevo già registrato una trentina di album; ma sto ancora creando sempre nuova musica perché la nostalgia non è una cosa per me che ha importanza. E’ importante invece andare sempre in avanti…

– Per fortuna dagli anni Novanta proprio i giovani hanno incominciato a riscoprirti. Il tastierista dei Charlatans ad esempio in un’intervista ti citava come la principale fonte ispirativa.

– In effetti gli anni Ottanta sono stati un disastro per me: mi sembrava che tutte le porte fossero chiuse. Quelli che, come me, portavano dentro di sè il jazz faticavano a sopravvivere nel mondo del pop e del rock. In quegli anni addirittura sono andato al College per la prima volta perché io sono stato autodidatta, avendo cominciato la mia carriera con i rullini di cartone della pianola. Ho imparato dal rullo del Guglielmo Tell di Rossini, facendo le note più alte o più veloci. In questa maniera solo adesso ho capito di avere imparato un sacco di armonici, perché ho appreso come si trasferisce il suono da una chiave all’altra. Quindi, tornando al College, mi sono diplomato in Storia della Musica, studiando tutti, Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, fino a Bartok e Stravinskij.

– Del resto con la musica classica avevi già un conto in sospeso: la tua versione pop della Pavane di Gabriel Fauré…

– Fauré era il direttore del Conservatorio di Parigi e ha avuto come allievi Debussy e Ravel, lui però era pre-impressionista, non ancora moderno, però quando ho sentito la Pavane, una forma di danza lenta alla padovana, ridotta in Francia a pavana, era come una sequenza di accordi che si può realizzare come jazz, con uno schema su cui posso fare un assolo, sopra questi accordi bellissimi. E ho deciso quindi di farlo in un’altra maniera rispetto alla versione ufficiale.

– Come ti senti a essere considerato, dai musicisti più giovani, il re dell’acid jazz?

– Era una cosa incominciata in Inghilterra con gruppi come Brand New Heaven, Incognito, Jamiroquai, James Taylor Quartet: quando venivano intervistati dicevano di me: lui è il padrino dell’acid jazz! Questa notizia ha fatto il giro del mondo, ma quando l’ho sentita io, mi sono fatto una bella risata!

– Forse quando proprio negli anni Sessanta, senza volerlo o saperlo, facevi già acid jazz nessuno pensava certo a etichettarlo?

– Sì, a quei tempi l’industria musicale non era così esasperata come oggi. Per me, poi era un sogno poter andare, anni dopo, negli Stati Uniti a vivere e a fare tournée accanto a gente come Herbie Hancock o gli Heart Wind & Fire! Addirittura certi gruppi heavy rock mi chiedevano di aprire i loro concerti: addirittura gli ZZ Top! Inimmaginabile! Una volta in Virginia ero come in un sandwich, c’erano i Rush, poi io con gli Oblivion Express e subito dopo i Kiss!

– A differenza di molti tuoi coetanei, non sei mai diventato un divo, anche se la tua musica, il tuo stile, il suo sound sono molto conosciuti. Ma ti sei mai sentito una leggenda vivente?

– Leggenda è un privilegio di pochi. Per me risulta comunque sempre sorprendente come la musica abbia un potere incredibile: ad esempio quando suono in Giappone arrivano dei fans con il vecchio vinile e di me sanno tutta la storia, con particolari che non ricordavo più da anni! Sicuramente l’esplosione britannica di gruppi musicali, lungo i Sixties, ha creato in tutto il mondo una nuova classe di gioventù, dove tutti erano appassionati di cose nuove, non solo musica, ma anche arte, moda, politica. Tutto questo ha cambiato il mondo: e posso anche andare in Giappone, senza parlare giapponese o avere contatti con qualcuno, e farmi capire, perché erano tutti appassionati da queste cose. Era un’altra cultura.

– Negli anni Ottanta, prima dell’acid jazz, c’erano già però alcuni gruppi o cantanti come Sade, Carmel, Everything But The Girl, Style Council che tentavano una riscoperta dei suoni cool o swing o soul. Li conoscevi?

– E infatti io fatto una cosa con Paul Weller, registrando per lui un canto gospel, in un breve periodo in cui stavo a Londra. Mi ha telefonato chiedendomi se potevo andare in studio da lui a fare un paio di pezzi. Io sono sempre in movimento, sulla strada, qui e là, risiedo in America, sulla West Coast, e se non c’è un contatto o un momento buono le collaborazioni non arrivano facilmente. Questo spiega perché il mio rapporto con la nuova scena britannica degli anni Ottanta e Novanta è stata sporadico. Comunque Weller è una persona gentile e un mio grande fan ed era un piacere non soltanto fare quei due brani con lui, ma anche semplicemente stare nello studio per un giorno. Inoltre ci sono stati di recente moltissimi musicisti che hanno campionato alcuni miei brani oppure hanno usato un patter ritmico per creare altre composizioni; e in questa maniera io e la nuova scena siamo collegati…

– E del tuo emulo James Taylor che ne pensi?

– Sono ben contento che ami la mia musica e che abbia riscoperto l’organo hammond, un così gran bel strumento che era praticamente scomparso negli anni Ottanta, sopraffatto dai sintetizzatori e dalle nuove tastiere elettroniche. Ma finalmente poi hanno visto che l’hammond era un’altra cosa… Io poi di hammond ne ho due del 1965.

– La tua è una family band?

– Sì, c’è mio figlio Karma che è un musicista straordinario, non dico una cosa così perché è mio figlio, però io ho suonato con tutti i migliori del mondo e posso assicurare che è veramente bravo: il suo idolo è Dennis Chambers. La mia figlia Savannah è invece appassionata di Sarah Vaughan e delle cantanti di jazz. Esce un suo disco con Ali Vaughan, impressionante come voce, però Ali non ama le tournées perché troppo faticose. A Savannah piace molto questa collaborazione. Però è un altro stile, diverso dal mio.

– E tu stai preparando un nuovo disco?

– Siamo in fase di missaggio; ci sono tredici pezzi e ne abbiamo già missaggi otto. Ci sono brani nuovi e alcune cover perché Savannah voleva fare nuove versioni di Light Me Fire e Season Of The Witch, però tutte le altre sono composizioni mie o di Karma, più un song bellissimo di Savannah, Karma e Chris il bassista.

– Parliamo del tuo ‘maestro’ Jimmy Smith che è mancato da poco tempo…

– Jimmy era un amico che avevo incontrato in America. Era un personaggio abbastanza complesso. Io più che studiare la roba che ha fatto Jimmy sono stato fortunato nello stringere una vera amicizia con lui. Quando l’ho conosciuto di persona era un momento un po’ strano per me: avevo vinto il Keyboard Poll americano per due anni consecutivi, indetto dal Keyboard Magazine, con Jimmy in seconda posizione. E penso che nella sua vita lui non sia mai stato al secondo posto, almeno nelle classifiche jazz che riguardano l’hammond. Dunque mi sono trovato con lui in una condizione molto strana: allora è stata Lola la moglie di Jimmy a rompere il ghiaccio, dicendo: “Ma tu sei Brian Auger!”. E io: “Sì, sì, sono venuto a salutare Jimmy”. E lei: “Guarda, devo dirti una cosa: tutti gli organisti hanno preso da Jimmy, anche tu ovviamente sei stato influenzato, però tu hai fatto una cosa tua. E per questo ti stimiamo molto”. E queste parole erano per me un enorme complimento. Poi è arrivato Jimmy e Lola gli fa: “Guarda, Jimmy, c’è Brian Auger!”. E Jimmy: “Sì lo so, lo so. E’ lui che ha vinto il Poll! Due volte!”. Poi mi ha stretto la mano e mi ha chiesto il numero di telefono, dicendo di andarlo a trovare a casa, che aveva ben tre organi. E da lì è una nata l’amicizia. E quando sono andato a sentirlo in concerto è stato molto felice.

– Cosa ti piaceva del sound di Smith?

– Per me lui era il caposcuola, il papà di tutti i nostri organisti moderni. Prima di lui c’erano Wild Bill Davis e un paio di altri, però il suono che ha inventato Jimmy sulle tastiere era molto molto alieno. Mi ha attirato completamente. Mi son detto: ma questo che cos’è? la prima volta l’ho ascoltato a Londra vicino a un negozio di dischi che aveva gli altoparlanti fuori e lo trasmetteva a tutto volume. Sono subito entrato, ho visto la copertina di Back At The Chicken Shack e ho immediatamente detto al commesso: “Dammi subito questo disco!”. E questo album ha cambiato di punto in bianco la mia vita. Sono passato dal pianismo jazz all’hammond. E da allora ho cominciato a mescolare il jazz con il rock e con il rhythm and blues.

– Come hai vissuto i cosiddetti ‘favolosi anni Sessanta’? C’era cameratismo tra i vari gruppi?

Era davvero un momento magico. Allora eravamo tutti amici, partecipavamo a feste trasgressive, ci si divertiva molto. Poi qualcuno in seguito si è messo a fare il divo…

– Qualche nome?

– Meglio non farli..

– E i Beatles?

– I Beatles no, son sempre rimasti ragazzi molto alla mano, come me e te in questo momento. Ancora oggi sento Paul e Ringo al telefono, qualche volta li vedo, ma nessuno di loro si è mai dato delle arie. Anzi ricordo che quando una volta suonai a Liverpool, poi, dopo il concerto, andammo tutti a bere a casa di John Lennon.

– E del tuo rapporto con Julie Driscoll? I maligni dicono che foste amanti segreti…

– No, nel modo più assoluto, il nostro era solo un rapporto professionale. Certo, Julie era una bellissima ragazza, era corteggiata tantissimo, sempre circondata da latin lovers, che però lei sapeva tenere a bada. D’altronde all’epoca, come adesso, io ero molto innamorato di mia moglie.

– Dove vi siete visti per la prima volta?

– Ho conosciuto mia moglie Maria Gabriella, detta Ella, nel 1967 a Milano in un locale che si chiamava Bang Bang, era un club fantastico in centro città. E quando mi si vede con Savannah, molti mi chiedono ancora se sia la figlia di Julie: no, no, non ho mai tradito mia moglie!

– Parlaci di un disco a te caro come A Better Land (1971), che segna un punto di svolta nella tua carriera…

– Ho visto dai dischi di John Coltrane e di Miles Davis degli anni Sessanta che non avevano paura di andare avanti, di sperimentare e di trovare qualcosa di nuovo. Così ho tentato di fare anch’io. Ho inciso i primi dischi coi Trintiy, poi il primo album di Oblivion Express e eravamo in due a scrivere io e Jim Mullen, abbiamo collaborato a stretto gomito, e quindi siamo entrati in un periodo in cui era in auge il prog rock, c’erano in classifica gli LP di Genesis, Yes e King Crimson. E all’epoca la stampa ha preso questi gruppi a modello per criticare tutto quanto aveva ritmo; dunque James Brown per loro era passato. C’era un’atmosfera incredibile, in cui si criticava pesantemente il Miles Davis funky. Ma erano matti al Melody Maker nel dire queste stupidaggini!

– E come risposta tu hai registrato A Better Land…

Io quindi ho fatto un disco diverso rispetto ai canoni progressive di moda. E la stampa mi ha martellato, dicendomi in pratica che ero finito. Stavo proprio male. Poi un giorno il postino bussa alla porta e mi consegna un pacchetto: c’era un album di Sarah Vaughan. Non c’era una cantante migliore di lei, per me. E lei in quell’album aveva registrato tre pezzi da A Better Land: Trouble, Tomorrow City, On Thinking Over. Un onore che mi ha tolto dalla depressione. E poi l’ago della bilancia si è spostato a nostro favore. Con Second Wind credo con Mullen di aver dato il massimo, perché è il più forte miscuglio di rock e di jazz per me. Ero riuscito a esprimere compiutamente quanto avevo in testo. In seguito ho fatto anche cose più funky.

– Perché questo strano nome, Oblivion Express?

– Chiuso con i Trinity, grazie ai quali avevo raggiunto il top, mi son detto: per realizzare questa fusione di rock e jazz forse vado contro il flusso industriale della musica, allora forse sono destinato di andare in oblio in tempi rapidi, andare in oblio (Oblivion) in tempi rapidi (Express).

Brian Auger