Art Blakey – “The Jazz Messengers”, 1956

// di Francesco Cataldo Verrina //

La discografia di Art Blakey & The Jazz Messengers è fitta come una selva oscura e si può smarrire facilmente la diritta via, con l’aggravante che molti dei suoi album hanno titoli simili, che a volte variano per un punto esclamativo o una posposizione tra Art Blakey e i Messengers o viceversa, tanti live, molte raccolte. Ma procediamo per gradi e cerchiamo di capire. Critici, studiosi, storiografi, scrittori di cronache jazz sono soliti usare il termine generico “bop” per inquadrare una serie di avvenimenti, dischi e personaggi.

Al contrario sarebbe basilare comprendere la differenza tra bop ed hard-bop, che non va per esempio intesa come avviene in altri ambiti musicali, ad esempio rock e hard-rock. Inizialmente, l’utilizzo del termine hard-bop potrebbe essere stata anche una scelta di comodo o una forzatura, poiché mutuato dal secondo album per la Columbia di Art Blakey & The Jazz Messengers, i quali furono tra i maggiori propulsori di questa nuova formula boppistica. Il disco, uscito nel 1957, aveva come titolo proprio “Hard Bop”. Volendo semplificare al massimo per agevolare la comprensione, va detto che, rispetto al bebop classico di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, l’hard-bop non va inteso come indurimento strutturale, ma piuttosto come semplificazione della modulazione del linguaggio e della sintassi, per quanto proposto, spesso, attraverso una miscela energica e muscolare.

Già nella prima metà degli anni Cinquanta, lo stesso Bird aveva avuto come l’impressione di trovarsi immerso in una palude creativa, stagnante e senza sbocchi, e prima che, nel 1955, le Parche recidessero anzitempo il filo della sua vita, aveva tentato nuove formule e commistioni, pur di liberarsi dalla prigione del formato canzone ed oltrepassare i ristretti limiti del perimetro bop, attraverso l’introduzione di impervie ritmiche africane e dinoccolate sonorità caraibiche, usando perfino complesse orchestrazioni ed introiettando trionfalistiche fanfare da musical. In alcune delle ultime registrazioni di Parker sono già rintracciabili tutti i prodromi del cosiddetto hard-bop, il nuovo linguaggio che innestò nell’albero del be-bop linfa vitale e semi creativi, senza tradirne gli assunti basilari, quali la rapidità di fraseggio, la potenza negli attacchi e nelle accentazioni, ma apportando, al contempo, altri principi regolatori, ossia dilatazione dei tempi di esposizione e di improvvisazione, semplificazione dell’eccessiva ridondanza di accordi, talvolta ridotti al minimo, anche uno o due al massimo, ma soprattutto l’introduzione di cospicue quantità di elementi fertilizzanti provenienti dalla tradizione soul, funk e gospel, tanto che per alcuni artisti come Horace Silver ed Art Blakey si cominciò a parlare addirittura di soul-jazz.

Registrato il 5 aprile e il 4 maggio 1956. “Jazz Messengers” di Art Blakey rappresenta uno spartiacque netto con quanto l’astuto batterista aveva fatto fino a quel punto, pur avendo già prodotto un graduale scostamento dal bop classico ed un avvicinamento progressivo al cosiddetto hard-bop. Qui la frattura è netta ed il concetto di hard-bop risulta per la prima volta nitido e distinto. La sua vulcanica fucina di talenti sarebbe diventata una specie di open space creativo dotato di sliding doors, da cui entravano e uscivano i migliori jazzisti di quel periodo, soprattutto giovani di talento, che spesso Blakey riusciva ad elevare al rango di vere star. Fare paragoni, in sistema di vasi comunicanti e di ingranaggi intercambiabili che mantenevano il solito brand di fabbrica, è assai difficile, ma questa fu una delle migliori compagini esposte dalla premiata ditta Art Blakey: il trombettista di Detroit Donald Byrd, il sassofonista tenore Hank Mobley, proveniente della costa orientale ed il pianista Horace Silver, un tassello fondamentale nel definire le linee programmatiche dei messaggeri ed l’estroso bassista Doug Watkins.

Nonostante in questo piccolo ensemble ci fosse stata molta coesione, la stella di Byrd ebbe un rapido incremento di luce, lasciando presto il gruppo, sostituito per breve tempo da Clifford Brown ed in seguito da Kenny Dorham. Durante il set i cinque musicisti distillarono alcuni esempi paradigmatici di hard-bop, difficili da riprodurre con tale perfezione, anche se da molti ripresi negli anni a venire, a partire dal celeberrimo “Nica’s Dream” intriso di ritmi latini, molto amati dal band leader in quel periodo, quale sostegno ideale per una melodia facile e diretta sviluppata da Byrd ed ammantata da un’avvolgente aura soulful. “The End of a Love Affair”, dove il tratto distintivo del tandem Mobley-Byrd marchia a fuoco uno stile ed una tipologia di arrangiamenti, di interplay e cambi di passo difficilmente replicabili. “Ecaroh” (“Horace scritto al contrario) si lascia ancora sedurre ai ritmi caraibici, espandendo lo spettro melodico con un tocco pianistico da accademia del jazz e un progressione ritmica da ispirazione sublime. “Infra Rae” è un ottimo interludio realizzato con grazia secondo gli assunti basilari della ditta. “Hank’s Symphony”, tenta un percorso alternativo, optando per un commistione rispetto all’andamento complessivo dell’album, l’abbrivio vola idealmente verso l’Asia, ma il groove ha tratti somatici di tipo afro-cubano, mentre Blakey scatena un uragano tropicale di tamburi sul mondo degli uomini ed in ogni latitudine. “Jazz Messengers” di Art Blakey è un album fondamentale.