Keith Jarrett – «Still Live», 1988

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Still Live» è una delle riprese sonore dal vivo più riuscite non solo della storia del jazz post-moderno, sicuramente costituisce uno delle performance più attrattive ed intriganti della lunga ed inquieta attività di Keith Jarrett. Si consideri che nell’evoluzione del piano trio post-bop, questo risulta essere uno dei line-up più equilibrati, il triunvirato delle meraviglie, quasi un incastro perfetto, così come lo era stato il cosiddetto «quartetto americano» durante la prima fase della carriera del pianista; si tenga altresì presente che il piano trio costituisce, probabilmente, la dimensione espressiva più adatta all’indole di Keith Jarrett, personaggio eclettico ed umorale, non facilmente circoscrivibile. Nonostante egli sia ancora un artista contemporaneo, la storia l’ha più volte celebrato e consegnato agli annali del jazz per le sue memorabili avventure in solitaria.

A parte il celeberrimo «The Köln Concert», il quale contiene anche molte parti oscure e poco brillanti, eufemisticamente potremmo dire evasive, nel piano solo Keith Jarrett finisce per essere dispersivo e tracimante, come un torrente che non si contiene e fuoriesce dagli argini, mentre nella configurazione piano trio, oltre a beneficiare di un prezioso sostegno, un suggerimento, immancabili interplay e piacevoli cambi di passo, ha la garanzia di una struttura di contenimento, che riesce ad incanalare il flusso sonoro in maniera più regolare e comprensibile, anche durante le lunghe digressioni improvvisative. Quando tale supporto, umano e musicale, nonché ampliamento creativo del progetto, giunge da Gary Peacock al basso e Jack DeJohnette alla batteria, allora non è difficile trovare la quadratura del cerchio. In effetti, la perfetta circolarità di «Still Live» diventa un dono degli dei alle umane genti. Senza tema di smentita, «Still Live» si candida ad essere un capolavoro del jazz anni ’80 in tutte le sue diramazioni ed accezioni. Il doppio album registrato dal vivo in digitale, il 13 luglio del 1986, presso la Philarmonic Hall di Monaco è il frutto di una tempesta perfetta di suoni che raggiungono l’apogeo nella quiete interiore. Jarrett è guidato da una luce divina ed emette una tranquillità coinvolgente, non comune ad altri suoi dischi live, dove appare più inquieto e tormentato, a volte anche più algido e distaccato.

Qualche obiettore di coscienza critica, potrebbe affermare che questa è l’ennesima «furbata» della ECM, che organizzò un set live di tutto punto, con apparecchiature digitali e all’avanguardia per l’epoca, simulando un concerto, dove vengono trattati soprattutto alcuni gioielli dell’American Songbook. Come dire, ti piace vincere facile? In realtà, la strategia di marketing che sottende l’iniziativa è arguta, ma sappiamo bene che i dischi rientrano in quella che viene chiamata arte come produzione, sono oggetti materiali e voluttuari, frutto dell’espressione artistica e dell’ingegno umano, ma stampati in serie, quindi devono essere venduti. Un album di musica contemporanea non è un quadro che si ammira e poi si torna a casa con il ricordo. In genere un disco lo si ascolta per radio, sul web, ma poi la strategia di marketing prevede un’operazione successiva, che si concretizza nell’acquisto.

Si potrebbe aggiungere che «Still Live» sia un lavoro commerciale, poiché facile ed immediato, basato su temi e melodie immortali, ma questa non è un deminutio capitis. Soprattutto, la fortuna dell’ECM fu quella di incontrare un genio come Keith Jarrett. Avete mai sentito una versione più bella di «Autumn Leaves»? Quella di Miles Davis, forse, ma non provate a cercarne altre di questa finezza, sareste perdenti e delusi. Jarrett è in uno stato di grazia e dai tasti zampilla l’ambrosia degli dei. Il disco nella sua totalità e di bellezza accecante, avendo racchiuso ed ingabbiato un crogiolo di forti emozioni in uno di quei momenti irripetibili, quando tra i vari musicisti si crea una sorta di perfetto allineamento sinergico, come quello dei pianeti e l’ispirazione viene guidata verso un immaginario altrove da un armonioso incanto.

Bastano le prime note di «My Funny Valentine», dove il fruitore è piacevolmente irretito, lasciandosi trasportare quasi sulle ali di una farfalla, mentre ogni singola nota sembra essere millesimata con perizia e cura, fino al sopraggiungere della già citata «Autumn Leaves», spennellata con un’alternanza di tinte e trame sonore, dove il piano disegna passaggi che affluiscono come onde avvolgenti, mentre la retroguardia ritmica fornisce una linea guida pulita e lineare. «When I Fall In Love» usa la profondità delle note come arma di seduzione, la dolcezza e il lirismo del piano di Keith Jarrett, mentre il tappeto ritmico di DeJohnette e Peacock, quasi accennato e spazzolato, avvolge il costrutto sonoro del pianista, come a volerlo proteggere da interferenze esterne. Trattandosi di un live, si ha come l’impressione che il pubblico pagante sia come ipnotizzato, mentre «The Song Is You» viene srotolata sulla lunga distanza di 16 minuti, con estese traiettorie riservate alle fantasiose improvvisazioni di Jarrett, intercettate e sublimate da due sodali con un comping da manuale.

In riferimento al set dei due LP in vinile, la terza facciata si apre con «Come Rain Or Come Shine», una pioggia di note ed un lampo di luce creativa, seguita da «Late Lament». È questa la parte più intensa e romantica con schegge di lirismo e pathos perforanti. Descriviamo le sensazioni e non la musica, ma le progressioni armoniche, i cambi di passo del pianista sono frequenti ed imprevedibili, senza che la quadratura melodica venga mai disattesa. La quarta facciata è quella più articolata e ricca di variazioni tematiche. La musica torna ad essere più impetuosa e le note si sollevano dal piano come onde del mare. Si comincia con la classica «You And The Night And The Music», seguita da «Extension», componimento a firma Jarrett, che ben si integra con il concept sonoro del progetto, così come l’intro aggiunto dallo stesso Jarrett a «Someday My Prince Will Come», mentre la musica si tuffa nuovamente nell’abisso dei sentimenti, fino all’atto conclusivo, «I Remember Clifford», dove la drammatizzazione musicale, diventa quasi una messa in scena teatrale.

«Still Live» ha rappresentato nel corso degli anni a venire un modello ispirativo per la classica formula del piano trio proiettato in una più moderna dimensione fatta di cambi veloci, momenti di calma apparente, discese ardite e risalite, dove ritmo, comping, improvvisazione, timing ed unità di intenti esprimono una tecnica non comune. Jarrett veleggia come un impavido nocchiero sul suo pianoforte, tenendo ben stretto il timone del comando, mentre i suoi sodali garantiscono che la nave non perda mai la rotta. Il viaggio è lungo, ma l’approdo è sicuro.

Keith Jarrett