// di Bounty Miller //

Nel momento in cui Ru-Paul, forse il più singolare emulo di Sylvester, irruppe sulla scena musicale, lo fece con il remake di «Don’t Go Breakink My Heart» di Elton John, un artista che aveva perennemente giocato sempre su atteggiamenti trasgressivi e provocatori, attraverso un’omosessualità dichiarata ed espressa con simboli estetici talvolta eccessivi e ridondanti, che però negli anni ’70 sembrava essere un terreno assai battuto da tutte le stars della musica mondiale, senza distinzione di genere e di stile. Elton John era sempre stato un artista universale e di raccordo tra vari moduli espressivi che andavano dal rock classico all’R&B, dal soul al country, passando per easy-listening, e, forse, il suo repertorio più celebre si fondava su una serie di morbide ballate e di pop-songs a presa rapida.

Tra cappelli di inusuale foggia, sgargianti occhiali dalle montature impossibili, abiti policromi, lustrini e strasse, il prode Reginald, questo il suo nome di battesimo, non aveva mai celato il desiderio di essere «regina», più che Reginaldo, di un regno dove la musica non fosse solo il modo più semplice e diretto per esprimere sentimenti, passioni e turbamenti, ma anche un vero sistema di segnali estetici legati al corpo, dove la musica avesse anche una sua fisicità palpabile, almeno visibile. I testi delle sue canzoni erano sempre sfuggiti all’impegno militante o alle complicazioni che non fossero di carattere sentimentale: amori impossibili, talvolta «diversi», abbandoni, incontri, desiderio di incontrollato possesso, gelosia ed irosità tipica di chi amava vivere sempre sul filo della precarietà sentimentale e della trasgressione. Ecco perché il suo approccio con la disco music fu del tutto naturale: in quei giorni in cui le piste delle discoteche pullulavano di fermenti creativi a vario livello, «il regina(ldo) del Pop» non poteva ignorare il fenomeno più pop(olare) del momento.

Quando venne dato alle stampe «Victm Of Love», più che un’esigenza artistica a molti sembrò una necessità commerciale, tesa a cavalcare l’onda dell’effimero successo della musica da ballo ed a rimpinguare le sempre disastrate casse dell’artista britannico, costantemente eccessivo nelle spese, spesso al limite dei propri fatturati. Il successo dell’album fu discreto, ma non eclatante, e di certo non si candidò mai ad essere il disco con cui Elton John verrà ricordato ad imperitura memoria: molti da sempre ne ignorano perfino l’esistenza, soprattutto a causa della campagna denigratoria e di boicottaggio intrapresa nei suoi confronti da taluni puristi del rock. Per alcuni di trattò di «tradimento», ma lo avevano già fatto anche i Rolling Stones, Rod Stewart, i Kiss e altri ancora lo avrebbero fatto. Qualcuno addirittura di lui, ironicamente, si precipitò a scrivere: «Elton John si candida a diventare il sesto componente dei Village Peolple».

L’album arrivò nei negozi nel 1979 è fu soltanto l’ennesima trasgressione o provocazione di Elton John, il quale per sua natura era avvezzo a mettere sistematicamente in discussione tutto ciò che aveva precedentemente prodotto. Le intenzioni furono alquanto serie. Non ha caso le tracce del microsolco vennero realizzate in Germania, presso lo studio Musicland di Monaco di Baviera, capitale dell’Eurodisco, ed in parte in America, ad Hollywood, al Ruskos Sound Studios, mentre la masterizzazione fu affidata ai tecnici dell’Allen Zentz Recording Studio, sempre in California. Senza dimenticare, solo per citarne alcuni, i musicisti che avevano preso parte alle registarzioni: Keith Forsey alla batteria, Marcus Miller al basso, Paulinho Da Costa alle percussioni, Steve Lukather alla chitarra ed al sax Lelly Pickett, addirittura ai cori Michael McDonald (già cantante dei Doobie Brothers) e Paul Simmons, ma soprattutto la produzione venne affidata a Pete Bellotte, demiurgo dell’Eurodisco. L’album inaugurava la prima facciata con una divertita versione di «Johnny Be Good» di Chuck Berry, riveduta in versione disco: rallentata nel ritmo e interpretata con piglio quasi ironico, addolcita nei suoni e dilatata fino all’inverosimile rispetto all’originale.

Nella traccia successiva, però, si iniziava a fare sul serio con una straordinaria «Warm Love In A Cold World», che anticipava di qualche anno quello che sarebbe stato un certo stile new wave nel modo di cantare la dance, spianando la strada a Jimmy Sommerville ed ai Bronski Beat, ma solo nell’impostazione vocale, perché i suoni erano rigorosamente «disco» di scuola germanica, «Born Bad» scivolava piacevole ed invitante secondo lo standard della dance dell’epoca. La B-side si apriva con «The Thunder Night» ed a seguire «Spotlight Street», due gioielli di disco music con sonorità pulsanti, basso corposo e qualche giochino di chitarra per non tradire il background rock, ma a metà strada, ed in perfetto equilibrio, tra la Baviera e California, tra passo dell’oca ed assolate melodie, perfino con qualche accenno di Hi-EGR music. «Boogie» era l’inno per eccellenza alla club-culture, al mondo della notte e un distillato di pura disco music di marca USA; la conclusiva «Victim Of Love» (title-track) fu il pezzo più suonato all’epoca, ma anche quello più facile ed impattante: un piccolo capolavoro che dimostrava al mondo come la dance, almeno in quel fragoroso periodo, fosse la vera pop-art-sound, intesa come sonorità popolare e di massa, ammesso che ce ne fosse stato bisogno.

Elton John, Andy Warhol, Jerry Hall e il compositore Ahmet Erteguna allo Studio 54