Chick Corea – «TouchStone», 1982
// di Francesco cataldo Verrina //
Essere un jazzista puro, per molti costituisce un limite. Così voci provenienti da più parti si riverberano nell’aria: il jazz è una materia duttile e malleabile in perenne divenire, non è una monade rigida ed impermeabile. Il musicista che pratica un solo genere, ligio ad una certa sintassi, specie nell’ambito del jazz contemporaneo, da molti viene indicato come un conservatore fermo ed inamovibile. Se così fosse, ma forse lo è, Chick Corea sarebbe un genio del jazz del terzo millennio ante-litteram. Non importa quale sia la posizione del musicista nell’ambito della storia del jazz moderno, se il suo pianismo, quello più ortodosso, possa essere o meno un parametro di riferimento, ma a Chick Corea un certo abito deve essere sembrato subito stretto.
L’affermazione del suo genio cade in un periodo, dove, parafrasando il poeta, di natura era frutto ogni vaghezza. Con tutta probabilità, talune attitudini alle repentine metamorfosi erano insite nella natura musicale del pianista italo-americano, forse condizionato da unastruttura genetica e mentale aperta, che lo portava a spingersi in tante direzioni. «Touchstone» è un’opera superba, dai toni sinfonici, dall’iperbole latina, una lezione di pianismo trasversale, un’esplosione di lirismo classicheggiante, una quarta via, ma forse una via di fuga dal jazz, senza tradirne gli assunti basilari. L’album fu registrato nel 1982 al Mad Hatter Studio di Los Angeles con la collaborazione di un composito numero di musicisti, che generano una piacevole polifonia ed offrono al genio di Corea una piattaforma ideale per i suoi arrangiamenti vaporosi ed avvolgenti.
Chick Corea piano acustico, piano elettrico e tastiere varie, Gayle Moran voce, Allen Vizzutti tromba, Steve Kujala flauto e sassofono tenore, Lee Konitz sassofono contralto, Carol Shive violino, Gregg Gottlieb violoncello, Bob Magnusson contrabbasso, Paco de Lucía chitarra battimani e percussioni, Al Di Meola chitarra, Carles Benavent basso elettrico fretless, Stanley Clarke basso elettrico, Lenny White batteria, Alex Acuña batteria e cajón, Laudir DeOliveira caixa, ganzá, caxixi e blocchi di legno e Don Alias lya drum, bonghi e congas. L’album si apre con «Touchstone: Procession, Ceremony, Departure», una suite suddivisa in tre movimenti, un eloquio dai connotati enfatici che scivola in una progressione adagiata su un letto di chitarre dai tratti classicheggianti. «The Yellow Nimbus» si alimenta ancora al sacro fuoco della chitarra acustica, ma in un’ambientazione ispanica, quasi a passo di flamenco. «Duende» si arricchisce dei fiati e di una moltitudine di strumenti e vola leggera attraverso una flessuosa movenza onirica, quasi impalpabile e sfuggente.
La B-side fa emergere il lato più propriamente fusion di Corea, autore di tutti brani, e la dualità dell’album. «Compadres» aggiunge elementi di modernità al percorso con qualche accenno di marcata elettricità. In «Estancia», il pianista si riappropria del fraseggio jazzistico, anche se la molteplicità dei suoni sviluppa una sorta di caleidoscopio etnico a tinte molteplici. In chiusura «Dance Of Chance» un’incursione metropolitana caratterizzata da riff funkiness e taglienti, con un finale quasi post-bop progressivo. «Touchstone» è una sorta di festival dei due mondi della musica, ma è questa la natura di Corea, o uno dei tanti aspetti della sua proteiforme genialità.
