Art Blakey And The Jazz Messengers – «Caravan», 1963

// di Francesco Cataldo Verrina //

Art Blakey operava come un demiurgo ordinando i giochi e affidando le parti con una precisa tecnica ad incastro, in base alla quale la sostituzione o l’alternanza di uno strumentista non doveva alterare lo schema tattico, le sonorità e le finalità della band. Musicista di vaglia, manager arguto ed ottimizzatore delle risorse umane a disposizione, Blakey non si comportava da padre padrone o da tiranno, ma accompagnava in un percorso creativo e formativo i suoi giovani sodali, i quali una volta usciti dalla sua ala protettrice, giungeva alla consacrazione come solisti, o quanto meno trovavano una loro personale e remunerativa dimensione artistica. La preparazione al dopo Messengers era garantita, poiché nella musica della batterista-band-leader, che si sostanziava in una specie di raccordo fra il bop classico ed un hard bop multirimico, c’erano tutti quegli accenti, quelle sfumature e quegli elementi innovativi che bisognava conoscere per suonare il jazz ad alti livelli, ossia tutte quelle sonorità che ancora oggi vanno sotto l’etichetta di modern mainstream.

Quando, nell’autunno del 1962, i Jazz Messengers iniziarono a registrare per la Riverside, Blakey era già l’asse portante ed il baricentro spirituale del gruppo da oltre due lustri, soprattutto il calibro degli artisti che avevano bussato alla sua porta in cerca di fortuna, gli conferiva una notevole credibilità sia come musicista che talent scout. Nel corso degli anni Art Blakey era stato a capo dei Jazz Messengers con diversi line-up, un vero e proprio opificio di musica, creatività, talento ed umanità, il migliore dei quali fu quello con cui diede inizio alla proficua collaborazione con la Riverside. «Caravan» continua a essere considerato uno dei momenti più significativi della carriera di Blakey, il primo di una serie per l’etichetta californiana, affiancato da un quintetto di top-players del periodo, in futuro diventati tutti delle singole star del jazz; soprattutto perché nessuno di essi avrebbe potuto mai trovare altrove un ambiente così stimolante, costruttivo, formativo ed ispirato.

Registrato il 23 e il 24 ottobre del 1962 presso il Plaza Sound Studios di New York con Freddie Hubbard alla tromba, Wayne Shorter al sax tenore e Curtis Fuller al trombone nella front line, mentre il pianista Cedar Walton ed il bassista Reggie Workman affiancarono Blakey nella sezione ritmica; una formazione che ha conosciuto pochissimi rivali tra le piccole band sotto il profilo della creatività, della musicalità, della varietà tematica e del puro swing. Ciascuno di essi fu portatore di una scintillante sinergia, senza sacrificare l’intensità individuale a vantaggio della collegialità. L’assolo di batteria nel brano iniziale che dà il titolo all’album espone immediatamente la tempra e la capacità con cui Blakey sapeva far coesistere una assoluta precisione con una debordante energia. «Caravan» smantella l’arrangiamento originale di Duke Ellington e lo ricostruisce attraverso un’estesa e ardente interpretazione. Tra le composizioni originali, «Sweet ‘n’ Sour» di Shorter si distingue come quella più ricca di collante creativo per l’ensemble, anche se il gruppo applica la stessa la sintassi a «This Is for Albert». Al contrario, «Thermo» di Hubbard è più spigolosa e sfrutta appieno l’aggressività ed i contrasti fra i musicisti. Il marchio di fabbrica give-and-take rende omaggio anche a due standard come «Skylark» e «In the Wee Small Hours of the Morning», mentre Fuller e Walton forniscono alcuni assoli da accademia del jazz.