// di Francesco Cataldo Verrina //
AL BAR DEI CUORI INFRANTI
Chet Baker, rappresenta la fragilità dell’animo umano applicata alla musica. Le sue debolezze venivano sublimate attraverso un sound riconoscibile sin dalle prime battute: sembrava che quel soffio debole e sofferente, raccontasse una vita piena di tormenti, così mentre la tromba emanava pathos, la sua voce sussurrava al mondo le umane paturnie. Ecco perché un artista come Chet Baker, pur non essendo dotato di una tecnica virtuosistica (per ciò che nel jazz possa valere la tecnica, se a discapito delle emozioni) ancora oggi, riesce a stabilire un forte empatia con la maggior parte degli appassionati di jazz e non solo. Il rapporto tra musicista e fruitore si stabilisce sul mero piano delle emozioni. Pur non avendo mai completato gli studi Chet Baker compensava con un “orecchio assoluto”, dono che madre natura concede solo ad una ristretta schiera di privilegiati. Il tormentato trombettista non era capace di composizioni memorabili, ma sapeva fare sue la partiture scritte da altri. Il primo ad accorgersi del suo talento, dopo averlo sentito in un piccolo club, fu Charlie Parker, il quale, telefonò subito ai suoi amici Dizzy Gillespie e Miles Davis, dicendo: “Attenzione, perché ho sentito un gattino bianco che, appena crescerà, vi creerà non pochi problemi!”
Di Chet Baker si è detto tutto ed il contrario di tutto. Il musicista piacione e guascone, il giovane scapestrato e sciupafemmine dall’aria cinematografica, il James Dean ( meglio il Jack Palance, somaticamente) del jazz, l’uomo con le sue fragilità, le sue paure, i suoi vizi, la sua eterna insofferenza alle regole. Non tutti lo sanno, ma Chet Baker è molto più amato in Italia che altrove. I suoi dischi sono tra i più venduti. Gli italiani da sempre gli hanno tributato onori e gloria, perché non amano le complicazioni e i gli album di Baker sono facili, immediati, melodici, con molti cantati che spesso toccano le corde di sentimenti. Chet Baker, l’eterno ragazzino, che trova la quadratura e la maturità artistica solo nella parte parte terminale della sua carriera. Chet Baker sempre stato ben accolto l’Italia ed ha registrato spesso nel nostro paese. Il 5 febbraio del 1962 in uno studio dell’RCA di Roma fissò su nastro uno dei momenti migliori della sua carriera, soprattutto per la vivace atmosfera che si respira all’interno dell’album. Il trombettista appare molto tonico e spigliato, gioca poco a fare il ruffiano ed imbeccato bene da un ottimo line-up in cui figura anche un pianista italiano, Amedeo Tommasi, Bobby Jaspar al sax tenore e al flauto, Renè Thomas alla chitarra, Benoit Quersin al basso e Daniel Humair alla batteria. Ascoltato con attenzione l’album rivela qualche similitudine con “The Bridge” di Sonny Rollins, il miglior album di quell’anno nell’ambito del bop mainstream. Il set rollinsiano era stato registrato qualche mese prima in uno studio dell’RCA Viktor di New York. Per affinità, anche “Il Grande Chet Baker” venne ripreso in un studio RCA e pubblicato originariamente dalla stessa RCA. Oggi esistono ristampe a vario titolo e con copertine differenti, le quali talvolta generano una certa confusione. Sono molti gli album poco trattati della lunga discografia del trombettista.
Chet Baker – “Baker’s Holiday”, 1964
Siamo nel 1964, Chet Baker era appena tornato dall’Europa, dopo essere stato espulso da quasi tutti i paesi, Italia compresa, per possesso di sostanze stupefacenti. Il contratto con una piccola etichetta, la Limelight lo tolse momentaneamente dai guai, dandogli un po’ ossigeno dal punto di vista economico, nonostante questo, come altri dischi di quel periodo, non abbia avuto un forte impatto sul mercato. A torto, perché “Baker’s Holiday” è un altro piccolo tesoro inesplorato ed il trombettista suona e canta in maniera molto ispirata. Merito di una nuova storia d’amore, dopo che il suo terzo matrimonio era naufragato e di un nuovo strumento il flicorno: si vocifera che la tromba gli fosse stata rubata o che l’avesse venduta per onorare i soliti debiti accumulati per i suoi vizi. Chet, tentò più volte di giustificarsi: “Molti pensano che io mi sia rovinato per le droghe, ma la mia principale fonte d’ispirazione sono state le donne: ero drogato di sesso. In Svezia avevo conosciuto una bellissima ragazza, siamo stati tutto il pomeriggio a fare l’amore. Mi aspettavano per un concerto, chiamai dicendo che non mi sentivo bene. Prima di abbassare la cornetta del telefono, dall’altra parte sentii qualcuno che diceva: lascia stare s’è fatto di nuovo. Io invece ero tra le braccia di una bionda alta un metro e ottanta”.
“Baker’s Holiday” rende omaggio a Billie Holiday, attraverso suadenti assoli di tromba e canti sussurrati con il supporto di una nutrita sezione fiati: Leon Cohen, Henry Freeman, Wilford Holcombe, Seldon Powell e Alan Ross, che si muove sulla spinta di un tradizionale line-up costituito da Hank Jones pianoforte, Everett Barksdale chitarra, Richard Davis basso, Connie Kay batteria. Il set si snoda su dieci composizioni legate a Lady Day, la maggior parte delle quali non era mai stata registrata in precedenza; solo in quattro di esse Chet Baker canta, mentre nel complesso l’album si consuma tra ballate ed eleganti vibrazioni swing. Per quanti amano il lato più romantico e cool del trombettista, questo album è pura magia, ideale in un pomeriggio piovoso o a tarda notte in solitudine, meglio se in dolce compagnia, una sorta chill-out ante-litteram, almeno nell’atmosfera.


LE DUE ANIME (DANNATE) DI CHET BAKER.
Personalmente ho sempre detto di preferire la produzione artistica del Chet Baker maturo, rispetto a quella del periodo giovanile. Il trombettista nella l’ultima parte della sua travagliata esistenza portava dentro i segni si una vita difficile e tormentata, il pathos zampillava da ogni nota della sua tromba, che con un esile soffio emanava forti emozioni e un pungente lirismo. Credo che Baker abbia pagato caro il prezzo di essere “bello” in gioventù, irresistibile con le donne, attraente con i media, ciò gli offri l’indubbio vantaggio di essere valutato più come personaggio che come musicista: l’idea dell’eroe maudit che suonava il jazz e viveva in maniera spericolata, prese il sopravvento nell’immaginario collettivo. Ciò gli diede la convinzione, ma forse solo l’illusione di poter vivere una vita senza regole ed alta velocità, certo, in cuor suo, che forse la vita non gli avrebbe mai presentato il conto, ma che invece lo trascinò verso una maturità difficile e complessa, fatta d’insicurezza economica, paure esistenziali e depressione, il cui epilogo fu un presunto suicidio. Una squallida morte ai piedi della finestra di un albergo, da cui precipitò buttandosi o spinto dai fumi dell’alcool e delle droghe, lontano dalla sua terra e dai suoi affetti.
Chet Baker “You Can’t Go Home Again”, 1977
L’album del 1977 di Chet Baker “You Can’t Go Home Again” presenta il trombettista-cantante supportato da una band all-star che include il chitarrista John Scofield, sassofonista tenore Michael Brecker, Tony Williams alla batteria e Ron Carter al basso, i quali aggiungono un tocco organico al set ed un caldo contrasto alle ibernanti divagazioni del pianoforte elettrico ed ai moog dettate dagli arrangiamenti di Don Sebesky. Un album funk-fusion nato dalla collaborazione tra la A&M e la Verve, lontano dalle temperate atmosfere cool dell’antico Chet. L’apertura è affidata ad un sontuoso urban-groove di Carl Porter, “Love for Sale”, 12:58 minuti senza respiro a spasso per gli anfratti metropolitani; a seguire “Un Poco Loco”, un pezzo di Bud Powel rivitalizzato: oltre nove minuti battuti a caldo dall’ingegnoso gioco poliritmico di Tony Williams, dove i maggiorenti del super gruppo danno il meglio senza mai tirare il freno o mostrare il fiato corto.
La B side si apre con la title-track a firma Don Sebesky, “You Can’t Go Home Again”, una spremuta di soul, servita con le sembianze di una sdrucciolevole ballata, che concede tregua agli operatori e riporta Chet Baker nella sua dimensione più congeniale; “El Morro”, tirato fuori ancora dal cilindro del geniale Sebesky, è un brano dall’anima spanish-latina e dall’umore variabile, fatto di discese ardite e risalite, un panegirico sonoro lungo quasi quattordici minuti, innervato dalle percussioni di Ralph McDonald e ricamato dal flauto di Hubert Laws, mentre il sassofono di Michael Brecker cerca il fantasma di Coltrane, sparando sulle orecchie dei fruitori cataste di accordi a mitraglia. Lo stesso Chet Baker soffia nel mantice con una forza del tutto sconosciuta. Elementi e dettagli che ne fanno un piccolo capolavoro e definiscono il momento più corale e meglio riuscito dell’album. Quello che sentiamo è un Chet Baker inter pares, disposto ad immolarsi sull’altare dell’avanguardia sonora di quello scorcio di anni 70. “You Can’t Go Home Again” mette in luce un aspetto interessante della proteiforme carriera dell’inquieto trombettista di Yale, caratteristica comune, anche se in maniera meno eclatante, a Miles Davis, ossia il sapersi e volersi affidare all’uopo, per esigenze artistiche o necessità di denaro, a musicisti più giovani ed innovativi, lasciandosi trasportare dal flusso delle nuove istanze dalla musica jazz.
