// di Francesco Cataldo Verrina //
Chet Baker Quintet – «Smokin’», 1966
«Smokin» è un album che presenta subito una particolarità: Chet Baker suona il flicorno, esternando un sound più morbido ed introverso che amplia il suo orizzonte creativo, ma che gli consente di inerpicarsi al contempo su un terreno più articolato attraverso un incedere più deciso. Il quintetto, a parte lo stesso Baker, si completa con il sassofonista tenore George Coleman, Kirk Lightsey al piano, il bassista Herman Wright e Roy Brooks alla batteria, i quali non vanno molto per il sottile, scegliendo la modalità hard-driving, inducendo, in tal modo, il mite Chet a sfondare la barriera del classico suono cool. «Smokin» fa parte di un pacchetto di cinque album, registrati con lo stesso line-up per la Prestige in uno stretto lasso di tempo.
È questo un periodo di transizione, una sorta di spartiacque, nella tormentata carriera di Chet Baker, che diventa più ecumenico ed universale, quale interprete della sintassi jazz, recidendo il cordone ombelicale che lo legava al più contenuto stile West-Coast: la temperatura si alza ed il suono d’indurisce, senza che la componente lirica ed introspettiva ne risentano. Non possiamo parlare di hard-bop «selvaggio» in senso stretto, ma la qualità, lo stile e l’impostazione sonora sono decisamente cool burnin’, tanto da riportare alla mente le grandi opere degli anni ’50 di Miles Davis del periodo Prestige.
Chet Baker e George Coleman si completano a vicenda, mentre il flicorno scava in profondità, il sax cerca la via della salvezza attraverso un percorso più laterale e meno prevedibile. Coleman fa da contraltare alla quieto procedere Baker, riversando qualche goccia di Coltrane nel suo stile, ma senza sprazzi violenti. Lo scambio tra i due fiati diventa un valore aggiunto per la band, quasi che ognuno dei due esercitasse un controllo sull’altro, garantendo alle melodie uno sviluppo razionale e contenuto con l’optional della facile orecchiabilità. Tre delle sei tracce dell’album, registrato a New York il 23, 25 e 29 agosto 1965, portano la firma del produttore Rchard Carpenter, in particolare la splendida «Rearin’ Back», uno dei momenti più gioiosi dell’album, composta insieme a Sonny Stitt e segnato da una melodia ariosa dall’andamento vagamente calypso con la sagoma di Sonny Rollins sull’uscio di casa; perfino la ritmica scalciante ricorda quella di «Way Out West», non è un plagio, però, solo un tributo ispirativo. «Grade ‘A’ Gravy», sempre a firma Richard Carpenter, dove Baker e Coleman cercano di mettersi nelle scarpe (o nei panni, se preferite) di Miles e Trane, inseguendosi e strattonandosi in un equilibrato gioco delle parti, sublime a tre quarti dell’opera l’assolo pianistico di Kirk Lightsey; «Serenity» è l’unico pezzo dell’album nelle corde naturali di Chet Baker, che imbeccato dal sinuoso sax di George Coleman e grazie al flicorno, smussa gli angoli del suono e perfora l’animo dei portatori sani di nobili sentimenti e dei cacciatori di emozioni notturne.
A seguire «Fine and Dandy», la traccia più lunga dell’album, un bruciante bop a scaglie soul che non lascia il tempo per pensare o per riprendere fiato, quindi anche Chet innesta la marcia e corre leggiadro, ma è il sax di Coleman che macina miglia e miglia di asfalto bruciante, sempre in odor di Coltrane, ottimo il contrappunto pianistico, rapido, ma non privo di complessità armonica; suggestiva l’interpretazione di «Have You Met Miss Jones?», certamente il momento migliore per il Chet con il flicorno, il quale disegna scenari metropolitani e lunghe scorribande notturne, esternando un’anima «nera» ed una vicinanza al soul-jazz dei grandi trombettisti neri, mentre il piano fa da ponte all’arrivo del sax che si esalta in un vorticoso crescendo, ma senza perdere il contatto con la dimensione melodico-armonica di tipo terreno. «Smokin» è un album a cui conferire un elevato score, anche se commercialmente non avuto molta fortuna, eppure è di una godibilità estrema. Di certo è uno di quei dischi da avere, perché difficilmente, se non in queste fasi di passaggio, è possibile trovare un Chet Baker così reattivo, poiché sostenuto e rassicurato dalla presenza di altri validi solisti, così come accadrà nella parte terminale della sua carriera. Consigliato soprattutto ai neofiti ed a quanti non cercano nel jazz soluzioni cervellotiche.


EXTRA LARGE
Chet Baker – «Baby Breeze», 1965
Questo è un album di Chet Baker spesso ignorato e poco praticato dalle cronache jazz. Registrato in due differenti sessioni nel novembre 1964, offre alcuni piacevolissimi aspetti della personalità musicale del trombettista, che tra l’altro si misura al flicorno con l’accompagnamento di diversi line-up di varia dimensione. «Baby Breeze» è un album multistrato, un’esperienza ricca e variegata che pone al centro del mondo un Baker in un momento alquanto creativo e versatile della sua carriera alle prese con arrangiamenti eclettici ed inconsueti rispetto al suo stile tradizionale. Tutti i brani furono registrati a New York per conto dell’etichetta Limelight. La seduta del 14 novembre presenta Baker accompagnato da Frank Strozier al sax alto e al flauto, Phil Urso al sax tenore, con il sostegno una sezione ritmica composta da Hal Galper al pianoforte, Michael Fleming al basso e Charlie Rice alla batteria nelle tracce 1, 3, 7, 6 e 9. La traccia 10 sia avvale di Kenny Burrell alla chitarra, mentre nelle tracce 11 e 14 Baker è supportato da Scott al pianoforte e Burrell alla chitarra. Nella sessione del 20 novembre Chet è sostenuto da Bob James al piano, Michael Fleming al basso e Charlie Rice alla batteria nelle tracce 8 e 14. Nelle tracce 2 e 5 sono presenti Bob Scott al piano e Kenny Burrell alla chitarra; nelle tracce 4, 13 e 15 Bob James al piano, Michael Fleming al basso e Charlie Rice alla batteria.
Pubblicato nel gennaio 1965, «Baby Breeze»fu il primo album in studio di Chet Baker dopo il lungo soggiorno in Italia durato 5 anni. Il suo rientro negli Stati Uniti lo vide foriero di un nuovo stile, un nuovo strumento, il flicorno, ed un sound più malleabile e dinamico, soprattutto alle prese con materiale compositivo molto più avanzato, attuale e fresco di conio, senza fare ricorso ai soliti stucchevoli standard dell’American SongsBook. L’album si fa strada attraverso alcune sofisticate e complesse composizioni di Hal Galper. La title-track, «Baby Breeze» marcia su un piacevole tappeto blues, mentre gli assoli di Baker risultano intensi e fortemente melodici. «This Is The Thing» snocciola una melodia a presa rapida, mentre «Hot» regala alle umane genti un assolo da manuale di Frank Strozier. Ottima l’invenzione melodica di Galper in «Pamela’s Passion», che grazie alla variazione di ritmo produce un piacevole effetto di sospensione. Il contributo compositivo di Richard Carpenter si sostanzia in due ottime tracce «Coming Down», che a tratti ricorda «Giant Steps» di Coltrane e «Born To Be blue, dove il canto di Baker risulta più lineare ed asciutto, magnificato dal pianoforte di Bobby Scott. «Baby Breeze» è un album solido ed insolito per un Chet Baker in grande spolvero, che cominciava gradualmente a svestire i panni del bel tenebroso sofferente, alzando il volume ed il tono della sua musica.