McCoy Tyner – «Sahara», 1972

// Francesco Cataldo Verrina //

Gli anni ’70 hanno indotto in tentazione molti musicisti, trascinandoli su terreni impervi, talvolta lontani anni luce dal modulo espressivo e compositivo tipico del jazz. In particolare due elementi dispersivi, ingannevoli o attrattivi gravavano sul capo di molti jazzisti come spade di Damocle: da una parte l’elettronica, una sorta di calderone sonoro che portava chiunque a misurarsi nell’ambito di un genere talvolta confusionario definito fusion, un’etichetta sbrigativa che tendeva quasi a voler giustificare l’intromissione di qualunque corpo estraneo all’interno della sintassi jazz; dall’altra l’ala antagonista e pseudo-intellettuale che mirava a trascinare molti artisti sul piano inclinato di un facile terzomondismo o africanismo di maniera, che si concretizzava spesso nell’uso di ritmiche surreali e strumenti desueti ed atavici, ma avulso da qualunque motivazione reale o spontaneo contenuto ispirativo.

McCoy Tyner non si era mai spinto oltre i confini dello sperimentalismo o delle avanguardie: tutte le sue innovazioni avevano seguito un metro di misura alquanto controllato e circoscritto. Arrivato alla Milestone, il pianista aveva cominciato ad osservare nuovi mondi possibili e disegnare traiettorie sonore non perfettamente in linea con il passato. «Sahara», pubblicato nel 1972, è certamente una delle sue opere più riuscite in assoluto e segna un ulteriore passo in avanti nella lunga iperbole evolutiva del pianismo jazz; certamente rappresentò lo stato dell’arte al momento della sua uscita, un volo ad ali spiegate verso la libertà, senza mai perdere la rotta. Tyner e compagni sfiorano le istanze del free, ma si fermano sulla soglia, elaborando un superbo costrutto sonoro, che rompe gli schemi e le regole, ma non deborda mai eccessivamente nella dissonanza e nell’atonalità; un diluvio di note in un vortice travolgente che seduce, ma non atterrisce l’ascoltatore medio.

Fino a quel momento Tyner sembrava avere qualche difficoltà a navigare nei mari burrascosi solcati da Coltrane nei due o tre anni prima della sua morte avvenuta nel 1967. Ciò aveva determinato un doloroso distacco fra i due. Con «Sahara», Tyner trova il perfetto «juste milieu», il centro di gravità ideale su cui assestarsi. Il suo modus operandi è più vigile, strutturato e concreto rispetto al tardo Coltrane, ma in lui arde il desiderio di concedere piena libertà al suono, attraverso un piglio aggressivo, una musicalità ricca di suggestioni ed un feroce attacco alle regole del pentagramma e delle rassicuranti strutture quartali, che da sempre avevano contraddistinto la sua produzione.

«Sahara» è la più riuscita rappresentazione del jazz anni ’70, dove i musicisti non hanno paura di mostrare le loro abilità, liberandosi da ogni inibizione: Sonny Fortune sembra quasi invasato, i suoi assoli sono potenti e fluidi, si agita, si sdoppia, diventa trino, aggiungendo un coriaceo sax alto ed un soprano sfolgorante al suo delicato lavoro sul flauto; il bassista Calvin Hill è solido come una roccia e le sue radici solcano profondamente la terra che calpesta; il batterista Alphonse Mouzon non perde occasione per dare fuoco alle polveri, la sua avanzata è sempre robusta ma flessibile; dal canto suo il titolare dell’impresa è intenzionato a trovare un nuovo territorio di caccia e ad espandere la definizione di jazz. Tyner picchia deciso sui tasti e sviluppa una valanga di energia allo stato puro, ma canalizzata con precisione millimetrica, tanto da mettere a repentaglio la stabilità di qualsiasi pianoforte sotto l’attacco e la potenza di fuoco sprigionata dalle sue enormi mani.

Il pianista è trascinato dal desiderio di sperimentazione, ma anche dal quel contagioso misticismo nato dal movimento African Heritage, che aveva attratto molti musicisti afro-americani. Il fulcro dell’album è la title-track «Sahara», srotolata sul tempo di oltre 23 minuti; una summa della storia del jazz post-moderno inseguita in tutte le latitudini e longitudini sonore possibili, ma evitando il mero esercizio di esotismo, attraverso un lavoro di squadra preciso ed ispirato, in cui il vero anfitrione è Sonny Fortune. Il suo flauto, offre suggestioni sonore molteplici che guardano verso sconfinati orizzonti, mentre il batterista Alphonse Mouzon puntella il cammino esplorativo di Tyner con vari effetti e percussioni. Il concept sonoro nella totalità riecheggia, al contempo, la maestosità, la bellezza, la crudezza e la miseria di un’Africa sconfinata, un deserto di solitudine, contraddizioni e seduzioni, tra viaggi e miraggi, dove la narrazione si sostanzia in una ridda di percussioni, intermezzi di flauto, vampate di ottoni e colpi frusta sul piano.

La vera forza di questo album risiede nel suo variegato panorama sonoro, fitto di suggestioni che, metaforicamente parlando, si dischiude sotto gli occhi del fruitore man mano che si procede nell’ascolto. I fragorosi accordi di Tyner e le esecuzioni fulminee della mano destra in «Ebony Queen» e «Rebirth» sono da cardiopalma, mentre in «Valley of Life», McCoy prende in mano un koto, strumento a corde giapponese e produce un delicato arazzo impressionistico, ricamato dal flauto di Sonny Fortune. «Sahara», registrato a New York nel gennaio del 1972 per la Milestone Records con la produzione di Orrin Keepnews, rimane il picco più alto dell’estro creativo di McCoy Tyner negli anni ’70 ed una delle punte d’eccellenza di tutta la sua carriera. La rivista Down Beat conferì all’album la lusinghiera valutazione di «5 Stelle», tutte meritate, ma se ne potrebbe, perfino, aggiungere qualcuna in più.

McCoy Tyner