// di Francesco Cataldo Verrina //
Paolo Fresu ha rigenerato l’immagine di Chet Baker o se preferite reimmaginato questa figura emblematica del jazz mondiale, idolo di molte generazioni, personaggio contraddittorio nel quale una musica spesso sussurrata ed una vocalità sofferente sembrano un antidoto ad una vita violenta, confusa, sconclusionata e consumata ad alta velocità, dove vizi e difetti sono compensati da evidenti virtù artistiche e non solo, segnate da un’esistenza complessa e, per contro, da una musica estremamente semplice e lineare.
Nessuno meglio di Baker ha saputo comunicare, durante la vita artistica e privata, le proprie debolezze ed il gioco di un fato spesso avverso che lo portava dall’altare dei trionfi alla polvere dell’umiliazione ma che, per converso, questo disordinato vivere diventava un’arma di seduzione di massa divenendo fortemente attrattivo sul pubblico. Chet Baker continua ad essere un personaggio maliardo e dotato di perenne attualità per chiunque: musicisti, cineasti, narratori di storie, jazzofili, giornalisti ed appassionati di dischi a vario titolo. Per quanto la storia del jazz sia costellata da personaggi dalle vite non comuni, quella di Baker è stata la perfetta trama di un romanzo. Ecco perché le musiche contenute in quest’album ed ispirate alle vicissitudini del trombettista dell’Oklahoma sono diventate anche la colonna sonora di una rappresentazione teatrale, sebbene il disco registrato allo studio Arte Suono di Cavalicco (Udine) abbia una vita autonoma, ossia non strettamente legata alla piéce.
L’album si srotola sulla lunghezza di quattordici tracce: quattro standard, alcuni tra i preferiti da Chet Baker, e dieci componimenti originali, di cui sei a firma Fresu e due a testa siglati dal pianista Dino Rubino e dal contrabbassista Marco Bardoscia. L’atmosfera è molto «cool» e le ballate sono predominanti, al fine di creare quel misto di lirismo, malinconia e sofferenza con cui Baker aveva conquistato i cuori e sedotto gli animi di molte generazioni di appassionati di jazz. Sulla rivista Rolling Stone lo stesso Fresu precisa chiaramente che nell’album «non ci sono brani in tre quarti e tutta la musica ha un carattere cool, come è sempre stata quella di Chet Baker, in bilico fra il suo disordine interiore e una architettura musicale tesa verso una perfezione melodica, armonica e ritmica quasi maniacale».
L’opener è affidato a «But Not For Me» di Gershwin. Dopo l’introduzione del tema, Fresu sviluppa subito una ricercata improvvisazione ricca di spunti originali e senza calligrafismo di maniera, così mentre Chet resta sullo sfondo quale motivo ispiratore, il piano di Dino Rubino secerne un ottimo distillato creativo facendo suo il tema con il sostegno dell’impeccabile Marco Bardoscia, il quale dalle retrovie non fa sentire la mancanza della batteria, che al contrario consente ai tre sodali una maggiore spazialità e più libertà di manovra. A seguire «The Silence Of Your Heart», con in calce la firma di Rubino, una struggente ballata che racchiude nel plot narrativo l’essenza del vissuto bakeriano; si procede con passo felpato, quasi sotto traccia, mentre Fresu carica la sordina per imprimere al costrutto sonoro un carattere fortemente emotivo ed aumentarne il pathos.
A questo punto entra in scena la batteria, che sarà protagonista in sole due traccie tra quelle composte da Fresu: «Palfium» è un mid-range dal passo svelto e dai connotati swing, dove la precisa spazzolata di Stefano Bagnoli, batterista nel collaudato Devil Quartet, detta il tempo ed il percorso attraverso una brillante cadenza che sposa le istanze del contrabbasso per tutto il procedimento. Si va avanti seguendo il gioco dei contrasti, quasi una perfetta cornice intorno alla vita di Chet Baker segnata da alti e bassi: «Postcard From Home» di Marco Bardoscia è una suadente ballata dal tratto melodico maliardo ed accattivante, per quanto struggente e tesa a scavare nel baratro delle emozioni, ma soprattutto caratterizzata nel finale da un Fresu che offre un esempio di alta accademia del jazz con una nota prolungata fino all’inverosimile.
«The Beatnicks» è una altra perla di Paolo Fresu giocata su un perfetto incastro di ritmo e melodia a presa rapida, nonché strutturata secondo il classico schema delle alternanze tra i solisti. «Fresing», di Marco Bardoscia si muove in punta di piedi sulle note di una perforante melodia take-away e dal sapore vagamente classicheggiante; una di quelle giravolte melodiche che s’inchiodano fra le meningi per non andare più via, quasi un preludio a «Everything Happens To Me» il secondo standard della track-list riproposto sotto le sembianze di una lenta ballata, dove la tromba si strugge con la complicità della sordina inoltrandosi nei meandri di un’improvvisazione a tempo quasi raddoppiato. Così «Chat With Chet», mentre offre all’ascoltatore un cambio di passo e di umore, ritrova l’aura magica del swing riecheggiando vagamente a «There Will Never Be Another You».
«Hotel Universo» composta da Paolo Fresu diventa quasi un interludio in sordina propedeutico ad una rivitalizzata versione di «My Funny Valentine», dove il trombettista evita il «plagio» trasfondendo nel composto una notevole quantità di sangue creativo e di nuova linfa vitale, attraverso una velocizzazione dello standard ed un claster improvvisativo non convenzionale. Nell’interplay il trombettista cede il passo ad un swingante costrutto a quattro mani architettato da Rubino e Bardoscia, mentre il ritorno in prima linea di Fresu, alimentato dalle retrovie solo dal basso, aggiunge nuovi contenuti all’improvvisazione libera. «Hermosa Beach» è un altro tributo compositivo di Fresu alle rilassate atmosfere del jazz del Pacifico care al Chet dei tempi migliori. Una ballata dipinta dalla tromba in sordina con i colori dell’anima. Con «Jetrium», un altro originale di Fresu fa la ricomparsa sulla scena la batteria di Stefano Bagnoli, che riporta l’album in una dimensione quasi cinematografica disegnando in un artistico bianco e nero gli angoli di una città fitta di misteri ed insidie notturne, mentre la tromba diventa l’io narrante di un film sospinta da un’inarrestabile retroguardia ritmica.
«Catalina» ancora a firma Fresu getta un ponte tra passato e presente sulle ali di una crepuscolare melodia dal sapore antico aprendo la strada all’ultimo standard, quale l’atto finale del disco. Il classico «When I Fall In Love» spinge Fresu ad invocare ancora una volta i suoi demoni creativi, per un ultimo tributo all’artista che egli, sempre su Rolling Stone, definisce: «il grido più struggente del ventesimo secolo, con una leggerezza dettata da una bellezza atavica che l’ha portato a vivere nel mondo con una misteriosa levità». Un lungo assolo del trombettista, quindi una serie di note estese ed una lunghissima per il finale, sembra indicare un’alternativa alla consueta lettura delle gesta e delle opere di Baker, della cui vita questa musica diventerà la colonna sonora ideale nella pièce teatrale. L’album è un perfetto dialogo a tre voci, integrato dalla batteria di Bagnoli, di forte impatto emotivo e coinvolgimento intellettivo, imperniato sul suono caldo e corposo e sulla fluida creatività del band-leader, sulle linee decise ed avvolgenti del basso di Bardoscia e sul pianismo aristocratico e vibrante di Rubino.
Sicuramente le parole di Fresu risultano piuttosto eloquenti a tirare le somme: «Ho lavorato nella scrittura di questo progetto operando attorno a quattro piani di ricerca: standard cari a Chet Baker, brani originali che ho scritto appositamente per la pièce teatrale, composizioni di Dino Rubino e Marco Bardoscia e canzoni con la batteria spazzolata di Stefano‘Brushman’ Bagnoli (…) Lo spettacolo è un omaggio alla musica californiana e alla cantabilità italiana molto cara a Chet, raffinato e intenso trombettista e cantante.». Le stesse tracce contenute sul CD originale «Tempo di Chet», pubblicato da Tǔk Music (la label discografica del trombettista sardo), sono riproposte anche in uno splendido doppio album in vinile colorato a tiratura limitata che presenta una singolare peculiarità: ognuna delle quattro etichette dei due dischi, invece di essere numerate come lo standard richiederebbe, ossia con il classico Side A, B, C e D, sono etichettate con le lettere C H / E T andando a formare il nome CHET.
