// di Francesco Cataldo Verrina //

Una degli aspetti più interessanti del jazz è forse l’individualismo. Ciò che un musicista suona è individuale e ciò che un ascoltatore percepisce è individuale. Ad esempio, usando tale regola per accordare uno standard come «All the Things You Are», nel jazz non esiste una sola entità ma milioni di entità. La grandezza del jazz sta proprio nella varietà e nella molteplicità di sviluppi possibili, anche di un singolo brano. Un po’ come dire: «Ecco questi sono gli accordi, adesso vedi tu cosa puoi fare!». Tutto ciò avrebbe potuto rendere una session del genere, rischiosa, imprevedibile, ma al contempo grandiosa ed epocale. E così fu. È bastato scritturare quattro eccellenti sassofonisti con regole d’ingaggio e tecniche d’assalto al pentagramma assai differenti e completamente individuali, ma permettendo a ciascuno di sviluppare le proprie idee sonore seguendo il medesimo percorso melodico. Il risultato avrebbe potuto essere disastroso, ma coinvolgendo «i signori di questo album», per gli organizzatori della session fu un rischio calcolato e nulla diede adito alla sia pur minima preoccupazione.

Il set offrì a quattro talenti diversi la possibilità di mostrare le proprie idee. Nessuno arrivò con l’intento di disarcionare l’altro. L’atmosfera, pur di forte impatto emotivo e sottilmente competitiva, fu estremamente rilassata. Hank Mobley, Al Cohn, Zoot Sims e John Coltrane non si sentirono frenati e tenui al guinzaglio l’uno dagli altri, piuttosto si compensarono e si esaltarono a vicenda con assoli ed invenzioni musicali frutto di ogni singolo pensiero. «How Deep Is The Ocean», per esempio, mette a confronto il pathos di Cohn con le sensazioni forti e pungenti elaborate da Coltrane. La stessa melodia, gli stessi accordi ma due menti diverse, altamente qualificate, che li interpretano. Lo stesso vale per i due assoli di Mobley e Sims.

La scelta della prima linea per questo album fu geniale. Hank Mobley era stato uno dei migliori tenormen sulla scena di New York con ottime credenziali all’attivo: Horace Silver, Miles Davis, Art Blakey e innumerevoli altri. Al Cohn, un altro famoso newyorkese, autore fluente e sassofonista di rango con lunga militanza nelle big band, in quel periodo aveva concentrato tutti gli interessi sul Cohn-Sims Quintet. Zoot, nonostante l’età, continuava ad essere uno dei più stimolanti sassofonisti dell’epoca. In quanto a John Coltrane, in pochi anni, sarebbe emerso come una delle principali voci del jazz mondiale. Quattro teste di serie, dunque, parteciparono a questa sessione del 30 novembre del 1956. «Tenor Conclave» venne pubblicato per la prima volta come album senza un leader dalla Prestige All-Stars, ma successivamente ognuno dei quattro partecipanti ha provveduto ad inserirlo a titolo personale nel proprio catalogo individuale. Una super band composta da tenorsassofonisti d’eccellenza ed una sezione ritmica di rango: Garland, Chambers e Taylor.

La title-track, «Tenor Conclave», firmata da Mobley dà il via al gioco del quartetto di tenori, i quali mostrano subito di sapersi muovere senza accavallamenti e ridondanze. Dopo un paio di passaggi e un minimo di orecchio allenato si riescono a distinguere e collegare i «giocatori» mentre apportano i singoli contributi al progetto, ma come spesso accade, il risultato finale tende ad essere più grande della somma delle parti. Dopo una breve introduzione impostata su una sequenza di rapidi riff, Mobley si lancia in un territorio davvero ispirato. La versione mid-tempo di «Just You, Just Me» mantiene le cose vivaci con un ritmo leggero, fatto su misura per portare in superficie il lato «giocoso» del line-up, in particolare, verso la fine, i quattro «borbottano» a vicenda per quattro misure prima di impossessarsi della melodia. L’altra composizione di Mobley è «Bob’s Boys» che, a conti fatti, è il pezzo più avvincente dell’intero set. Un’attraente melodia dal sangue blues che si dipana con andamento flessuoso, mentre Coltrane, Mobley, Cohn e Sims si ritrovano faccia a faccia attraverso una miriade di botta e risposta. Ad ammantare il conclave dei tenori arriva il sofisticato «How Deep Is The Ocean», brano dall’atmosfera ultra-cool, dove Cohn inizia una lunga e sensuale lettura delle note con una forza sottile, esaltando la potente corrente sotterranea che scorre attraverso gli accordi. Grandiosa l’interazione di Garland, che si congiunge a Sims e Chambers, mentre sul finale Coltrane si erge in un sublime ed inarrivabile volo libero, senza uscire mai dalla rotta stabilita.

Confrontando gli stili dei quattro si potrebbe tentare un’etichettatura: Hank e John sono molto affini, tendono all’imprevedibilità, mentre Al e Zoot sembrano forgiati con uno stampo diverso: meno spericolati, ma fortemente creativi nella regolarità. Ciò introduce un altro aspetto eccitante dell’album: la capacità dei quattro di aver saputo suonare insieme alla perfezione, come se quella fosse stata una pratica ripetuta più volte in precedenza. A parte le differenze stilistiche dei loro assoli, i quattro procedono all’unisono e si ha la sensazione di una notevole compatibilità tecnica. La sezione ritmica: Garland, Chambers e Taylor rappresenta un altro omaggio alla coesa musicalità e al potente calibro espressivo dell’ensemble. Il che dovrebbe essere sufficiente, a farci scrivere sulla pagella: «promossi a pieni voti».

Analizzando le melodie di «Tenor Conclave», tra i molti tecnicismi, l’esperto scriverebbe: «..all’ottava barra Coltrane entra su un MI-minore di settima e modula …», ma poiché la maggior parte degli appartenenti al popolo degli uomini non si rende conto di quanto minore sia un «MI-minore di settima», l’album va sintetizzato e giudicato in maniera diversa: due ottimi brani originali e due standard suonati alla perfezione da un team vincente: Mobley, Cohn, Sims, Coltrane, Garland, Chambers e Taylor.