// di Francesco Cataldo Verrina //

Sonny Fortune ha ricevuto tributi tardivi e spesso circoscritti agli addetti ai lavori ed una ristretta schiera di appassionati competenti. Alcuni riconoscimenti sono arrivati tardi e gli hanno consentito di registrare alcuni dischi da band-leader con la Blue Note, ma siamo già negli anni ’90. In particolare spiccano «Four in One» (1994), un omaggio a Thelonious Monk con Kirk Lightsey al pianoforte e «From Now On» (1996), salutato come un trionfo post-bop e magnificato da un line-up di prim’ordine: il pianista John Hicks, il bassista Santi Debriano e il batterista Jeff «Tain» Watts; tra gli ospiti figurano Eddie Henderson alla tromba e Joe Lovano al sassofono tenore.

Eppure Sonny Fortune, per quasi quarant’anni, era già stato un musicista multi-reading, anche se riconosciuto prevalentemente come sassofonista contralto, foriero di un suono potente e certosino, ma con sfumature non convenzionali che lasciavano presagire una costante opera ricerca. Il musicista di Philadelphia possedeva una padronanza ed un timbro autorevole anche sui sassofoni soprano, tenore e baritono, oltre che sul clarinetto e sul flauto; riusciva perfino a cantare molto bene, essendo stato il canto la sua prima passione ed oggetto di studio durante gli anni della giovinezza. Incline per natura all’esplorazione ed attento a non farsi intrappolare in gabbie stilistiche coercitive, la sua attività ha sempre spaziato tra avanguardia e post-bop, tra jazz spirituale e tradizione swing, oltre ad aver toccato molteplici filoni della fusion, sia al seguito di personaggi della caratura di Miles Davis che nei suoi album da leader. Nel 1974, infatti, Fortune aveva accettato di sostituire il sassofonista David Liebman nel gruppo di Davis e, sebbene sia rimasto con Miles solo per un anno, fu protagonista di un periodo assai fruttuoso partecipando ad album epocali come «Big Fun», «Get Up with It», «Agharta» e «Pangaea».

Fortune ha lasciato questa valle di lacrime nell’ottobre del 2019, all’età di 79 anni, purtroppo con una discografia personale, alquanto esigua. Tutto ciò non restringe il campo della rilevanza del personaggio, data la mole di collaborazioni a vario livello. Il musicista era assurto agli onori della cronaca nel 1967, dopo la morte di John Coltrane, unendosi ad Elvin Jones (nella Jones Jazz Machine), batterista di lunga data del genio di Hamlet, tanto che la musica di Fortune venne subito inquadrata come un’estensione dell’eredità coltraniana. Tale convinzione è andata corroborandosi nel tempo, specie dopo che il sassofonista aveva accettato di lavorare, nei primi anni ’70, con McCoy Tyner e nella Coltrane Legacy Band, comprendente Tyner, Jones ed il bassista Reggie Workman. A differenza, però, di altri discepoli dichiarati di Coltrane, Fortune non ha mai accantonato o sacrificato le proprie caratteristiche scadendo nell’imitazione e nel calligrafismo. Analizzando il suo lavoro è possibile percepire echi provenienti da più direzioni e stabilire eventuali altri parallelismi. Nel 1975, sul New York Times, John S. Wilson descrisse Fortune come un musicista polimorfico «capace di tirare fuori tutte le qualità espressive dai vari strumenti, proprio come faceva il grande sassofonista baritono di Duke Ellington, Harry Carney.» – Quindi John S. Wilson aggiungeva – «In lui, ricchezza e completezza di tono sono combinate con estrema facilità in quasi tutto ciò che suona».

Il giovane Cornelius Fortune, detto Sonny, si era trasferito a New York proprio su consiglio di Coltrane, suo amico e mentore dai tempi di Philadelphia. Tra i primi ingaggi come sideman figurano quelli con Mongo Santamaría, percussionista e band-leader afrocubano e Leon Thomas, cantante soul-jazz d’avanguardia. In seguito, il Nostro lavorerà con il trombettista Nat Adderley e nella big band di Buddy Rich. Il primo album interamente a nome di Fortune risulta essere «Long Before Our Mothers Cried», originariamente pubblicato dall’etichetta Strata-East nel 1974. Il set fu registrato insieme al trombettista Charles Sullivan e al pianista Stanley Cowell, con l’accompagnamento di svariate percussioni, tanto che la title-track, uno dei cinque brani originali firmati dal leader, si muove su un substrato tribale, attraverso da un groove inequivocabilmente afro-centrico. Era quello un periodo in cui il terzomondismo imperava. Fortune ripropose la medesima formula, impiegando un modus operandi ed un metodo creativo simile; soprattutto, nei due follow-up realizzati l’etichetta Horizon, «Awakening» (1975) e «Waves of Dreams» (1976), coinvolse grossomodo gli stessi musicisti. In questo periodo Fortune giocò molto su un elettronica appena accennata rafforzata da una ridda di percussioni, soprattutto dava sfoggio delle sue innate capacità polistrumentistiche, caratterizzandosi egregiamente anche come compositore. I brani eseguiti sono quasi tutti originali, i suoi assoli sempre degni di nota, manca però l’idea di un concept e questi album, per quanto piacevoli, in particolare «Waves of Dreams» del 1976, sembrano fluttuare in una sorta di limbo ed in attesa di tempi migliori. Si ha come l’impressione che Fortune volesse mettere insieme ciò che aveva fatto in passato, aggiungendovi una segreta formula sonora con un futuro dalle forme incerte.

Seguiranno alcuni album per l’ Atlantic Records, legati al filone della fusion leggera, molto in voga in quel periodo, come «Serengeti Minstrel» (1977) e «Infinity Is» (1978), che incorporano elementi disco-funk. Negli ultimi anni Fortune ha lavorato periodicamente con una tribute band chiamata 4 Generations Of Miles, composta dal chitarrista Mike Stern, dal bassista Buster Williams e dal batterista Jimmy Cobb, dichiarando formalmente con un album del 2005, volutamente intitolato «In the Spirit of John Coltrane», il suo punto di riferimento ideale e la sua pietra di paragone. L’ultima pubblicazione di Fortune si riferisce ad un album dal vivo, «Last Night At Sweet Rhythm», quasi un addio al famoso club del Greenwich Village, precedentemente conosciuto come Sweet Basil, che per lungo tempo era stata la sua seconda casa. Qualche mese prima di morire, a metà luglio, il musicista di Philadelphia si era esibito come band-leader allo Smoke Jazz And Supper Club di New York. All’indomani della sua morte, il suo agente, Reggie Marshall, commentò con queste parole: «Sapete come si dice, che un atleta lascia tutto sul campo?». Beh, Sonny ha dato tutto sul palco fino alla fine».