// di Bounty Miller //

I Rolling Stones sono il simbolo della trasgressione: nonostante la rispettabile età ed un centro medico per la defibrillazione allestito nel back stage. I loro concerti comunicano ancora sensualità e «violenza», parole che suggeriscono droga, baccanali e amori sfrenati, musica aggressiva e travolgente, comportamenti ambigui e demoniaci. Da sempre, si parla di un loro scioglimento, ma il più famoso e imprevedibile gruppo rock continua a fare impazzire giovanissimi, fratelli maggiori e genitori (qualche vecchio fan, nel frattempo è diventato, addirittura, nonno).

Ciò che impressiona è la loro perenne esuberanza, quasi una sorta di «patto col diavolo», diversamente non potrebbero essere sempre sulla cresta dell’onda e resistere a tanti anni di follie ed eccessi. Mentre molti dei loro primi sostenitori, giornalisti, DJs e addetti ai lavori compresi cominciano ad avere problemi alla prostata, loro sono più vispi che mai. Dopo diversi lustri di scorribande, di rinomata attività, la premiata ditta Rolling Stones manda ancora in visibilio schiere di fans, che accorrono ai loro concerti. Le più recenti tournée sono risultate irresistibili con stadi, teatri e palasport assediati da migliaia di persone, anche se siamo lontani dai tumulti, le baruffe e gli isterismi di massa di un tempo. Una vita spericolata all’insegna di successi incredibili, scanditi da album epocali, da singoli esplosivi e condanne per droga mai applicate: nella media, ad ogni loro album bastano meno di 24 ore per giungere in cima alle classifiche di mezzo mondo. «Sex Drugs and rock’n’roll», ossia sesso droga e rock and roll, dal titolo di un famoso brano di Ian Dury: solo tre parole per sintetizzare l’esperienza Rolling Stones.

«Alcune ragazze mi prendono per soldi, alcune mi prendono per i vestiti. Alcune mi tolgono la camicia e mi lasciano con una dose letale». Ecco uno degli innumerevoli esempi di come sia impossibile spiegare il mito di Jagger e compagni, senza chiavi di lettura che vadano oltre la loro musica. E tra queste, forse la più importante, è il segno lasciato nell’arte di far spettacolo. Lungo la strada del rock, chi se non Mick Jagger, più di ogni altro, ha saputo assurgere a simbolo di una sessualità sfrontata, dionisiaca e conturbante? Basti pensare alle frasi velate, alle ambiguità di certi testi, mimati in tutta la loro crudezza dal vivo. A titoli come «Let’s Spend The Night Together» (passiamo la notte assieme) che non lasciano il minimo dubbio ed a brani meno conosciuti come «Straycat blues», dove due ragazzine grattano la schiena a Jagger urlando, «come gatte randage», mentre lui si domanda cosa direbbero le loro madri se le vedessero. Vero e proprio animale da palcoscenico, non privo di istrionica consapevolezza, Jagger si agita, balla e provoca il pubblico. Più che concerti, le apparizioni «live» del gruppo sono stati, nel corso dei decenni, happening che liberavano emotività ed energia sessuale. Con tutti gli adescamenti inventati per trascinare chi ascolta e soprattutto chi guarda: smorfie, salti e seduzioni continue. Un’eccezionale feeling caricato di una sua violenza comunicativa, equivoca ed ammaliante, che, però, ha sempre trovato riscontro nei sogni e nei bisogni, nelle insoddisfazioni e nelle gioie di intere generazioni legate ai cosiddetti «anni di rifiuto». In generale il punto di vista dei Rolling Stones sulla sessualità non concede molto a quel che di li a poco rivendicheranno i movimenti femministi.

La logica degli Stones,va detto, è sempre stata «maschia», ma non maschilista. Qualche volta, ma non spesso, si sono concessi una briciola di autoironia. Resta il fatto che i personaggi e le figure femminili sono quasi sempre ,più che un «discorso amoroso», un puro stimolo sessuale vissuto secondo un cliché tipico, che mescola violenza e tenerezza come in «Some girls»: «le ragazze francesi vogliono i gioielli firmati, le ragazze italiane vogliono le automobili, le nere vogliono fare l’amore tutta la notte» e cosi via in una solenne descrizione geografico-sessuale degli atteggiamenti femminili. Il piacere del corpo: nella loro «maschia amoralita», i Rolling Stones hanno saputo proporre un recupero della fisicità e del piacere del corpo non certo a senso unico, ma indirizzato invece a chiunque avesse voglia di ascoltarli. La droga, sia che si tratti di semplice marijuana, sia che si tratti di cocaina o eroina, ha sempre avuto un posto di riguardo nella vita pubblica e privata delle pietre rotolanti, o almeno di tre di loro: Jones, Richards e Jagger. Brian Jones ne abusò al punto di compromettere definitivamente il suo fisico, già minato da attacchi d’asma, e la sua psiche tanto da dover ricorrere più volte a cure neurologiche.

L’attacco preordinato verso gli Stones da parte di magistratura e polizia iniziò nel ’67, quando in un appartamento di South Kensington venne trovata della canapa indiana. Cominciò per le tre rock stars la girandola di notti passate in guardina per possesso di stupefacenti e cauzioni da capogiro per uscirne il mattino seguente. La prima risposta fu quella dei fans che manifestarono pubblicamente in Piccadilly Circus. Contemporaneamente, gli Who diedero il loro appoggio, incidendo due brani degli Stones: «Under My Thumb» e «The Last Time». Persino un editoriale del conservatore «Times» si schierò nettamente dalla parte della band, accusando il comportamento dei magistrati di essere discriminatorio. Insomma, non passava giorno, che la stampa non si occupasse del loro privato. Infatti, con la droga gli Stones di quegli anni hanno un rapporto assi intimo; «Please, Sister Morphine, turn my nightmare into dream» (Per favore, sorella morfina, trasforma il mio incubo in sogno) dall’album «Sticky fingers» inciso nel ’71, sono parole che descrivevano fin troppo bene l’uso e abuso di droga pesante che circolava nel gruppo.

E pensare che gli Stones avevano debuttato con una cover di Chuck Berry, pubblicarono un secondo singolo il secondo firmato Lennon-McCartney, mentre il terzo fu un tributo a Buddy Holly. Il loro primo EP era pieno di brani altrettanto cinicamente mainstream o romantici. Solo con l’uscita del loro omonimo LP di debutto divennero il paladini del blues, un blues indiavolato ed incontenibile, non a caso Keith Richars , una volta ebbe a dire: «Noi siamo solo una R&B band».

Ma anche in proposito, gli Stones rivelarono una loro originalità: a parte Brian Jones, che ne rimarrà vittima, per gli altri, l’uso di droga rientrò nella filosofia di un quotidiano da consumare freneticamente nella massima ricerca possibile del piacere: edonismo totale. Non tanto quindi la droga come reazione all’angoscia dei tempi o al puro rallentamento della percezione, come avverrà più avanti con la cultura psichedelica, e come era avvenuto negli ambienti jazzistici, ma quanto una celebrazione della propria vitalità, anche se opportunamente esaltata da polveri di vario colore. Negli anni Ottanta, quando gli Stones erano già in fase di «revisione» del proprio operato, Richards esortava i giovani a non fare uso di sostanze stupefacenti , soprattutto a non prendere esempio dalle rock-stars, che, sempre a detta di Richards, possedevano soldi e mezzi per curarsi e disintossicarsi. In fondo un rock-star drogata, in virtù della trasgressione operata nei confronti della «normalità» si trasformava un idolo acclamato dalle masse, mentre un comune mortale drogato finiva sempre per diventare un rifiuto della società, quando non ci rimetteva la pelle.

Già alla fine degli anni ’70, Jagger e soci avevano intuito che non era più tempo di contestazioni (anche il Punk aveva fallito), ma di «contaminazioni». Ciò che essi si apprestavano a fare era cosa ben diversa dagli esordi. Nella fase erigenda – come già spiegato – le loro radici, si perdono in quella musica definita «la musica del diavolo», ossia il blues. È nella «swinging London» del ’62, che i giovani Rolling Stones (meno Watts (recentemente scomparso) e Wyman che giungevano da esperienze jazzistiche) passano le notti a suonare e farsi le ossa assieme ai padri del british blues: Alexis Korner e Graham Bond. Accadde in una notte come le altre, intenti a suonare in un piccolo club denso di fumo e impregnato dall’odore forte del luppolo della birra, che per la prima volta li vide Andrew Loog Oldham, il produttore che li porterà lontano. I primi successi, come esigeva la logica discografica dell’epoca, dovevano essere dei singoli, cioè dei 45 giri, tra 1’altro sfornati uno dietro 1’altro a velocità vertiginosa. E i brani dei Rolling, almeno fino al febbraio del ’65, sono tutti (o quasi) rivisitazioni di pezzi celebri tratti dal repertorio blues e R&B dei maestri, tra i quali Chuck Berry e Willie Dixon. Anche gli album di quel periodo non sfuggono alla logica discografica succitata, essendo solo delle raccolte del singoli usciti fino a quel momento.

La svolta la si ebbe, dapprima, con «The Last Time», quindi con la famosissima «Satisfaction», brani composti per la prima volta dal tandem Jagger/Richards, che, sempre per la prima volta, appone la firma un intero album dal titolo «Aftermath», il quale coincide con il loro successo commerciale ad ampia diffusione. In «Aftermath», registrano «Goin’Home», che per la prima volta scavalca i dettami dell’industria superando la durata media della tipica rock-song, con un’odissea sonora di ben11 minuti e 35 secondi, fatti di emozionanti digressioni armoniche. Con «Beetween The Buttons» (ma intanto sono usciti anche una raccolta «Big Hits», e un live «Got Live If You want») si respira un’aria diversa, confusa e legata alle movimentate vicende personali che alcuni membri del gruppo stanno attraversando. Siamo nel ’67, il «Flower Power» californiano ha attecchito dovunque diffondendo con la cultura della droga. I Beatles hanno da poco inciso lo psichedelico «Sergent Pepper» e gli Stones preparano ad un’ennesima svolta con «Their Satanic Majesties Request», album di droga, provocazioni sessuali, tensioni psichedeliche e satanismo.

Il disco va benissimo in America, ma in Inghilterra la critica lo liquida come «porcheria», dando per imminente la fine del Stones. sarà «Beggars Banquet» (banchetto dei mendicanti) che, arrivando al momento giusto, farà rimangiare alla critica talune imprudenti affermazioni. L’impegno della band fu totale, fino ad ottenere un sound rifinito e suggestivo, capace di cogliere quanto stava accadendo nell’universo giovanile. Spiccano nell’album due brani in particolare: «Sympathy for the Devil» e «Street Fighting Man» (da ogni parte sento il suono di piedi che marciano, che caricano…), in sintonia con quanto, (siamo nel ’68), stava succedendo nell’Europa occidentale. Prima che esca «Let It Bleed», accadono due fatti importanti e tragici. In luglio, Brian Jones viene trovato morto nella piscina della sua villa, mentre nel dicembre, ad Altamont ad un raduno rock, durante 1’esibizione dei Rolling Stones, è proprio sulle prime note di «Sympathy For The Devil» (comprensione per il diavolo) che un gruppo di Hell’s Angels del servizio d’ordine, accoltella a morte un ragazzo di colore, reo di aver toccato una delle loro moto. II tragico avvenimento e tutto il loro concerto verranno ripresi, con straordinaria drammaticità, nel film «Gimme Shelter». In «Let It Bleed» si registra la presenza del subentrante chitarrista, Mick Taylor, oltre ad un cospicuo numero di ottimi turnisti, che d’ora in poi lavoreranno esternamente con la band ufficiale.

Dopo aver abbandonato la vecchia casa discografica gli Stones fondano la loro etichetta privata, la Rolling Stones Records, il cui marchio sarà la linguaccia rossa e impertinente (disegnata da Andy Warhol), che farà, d’ora in poi, capolino da tutte le loro produzioni, prima fra le quali «Sticky fingers». In questo album, trattate come al solito in modo allusive, salteranno ancora fuori storie di droga (Sister Morphine), di perversione (Brown Sugar) e di morte (You Gotta Move): «Ma quando il Signore è pronto tu te ne devi andare che tu sia povero o ricco, poliziotto o puttana». Finalmente nel ’72, il primo album doppio della loro storia: «Exile On Main Street», summa di dieci anni di esperienze musicali e di vita del gruppo.

Ammiratori del suono e del ritmo reggae Keith e Mick decidono assieme alle altre tre «pietre», di incidere il successivo album in Giamaica. Cosi eccoli a Kingston, capitale dell’isola caraibica per le registrazioni di «Goat’s Head Soup» un album dal suono troppo rilassato e dal contenuto poco incisivo. A distanza di un solo anno, però, arriva «It’s Only Rock’n’Roll» che riprende saldamente le redini di un sound più sorgivo e dirompente. Con «Black and Blue» si registra la defezione di Mick Taylor sostituito dignitosamente da Ron Wood, ed un’influenza marcata di musica giamaicana, mentre con «Some Girls» soprattutto per il brano «Miss You» di matrice «disco-funk», si assiste ad una contestazione da parte dei fans scandalizzati. Mick Jagger in quel periodo era uno dei più assidui frequentatori dello Studio 54 di New York. Gli anni ’80 si aprono con «Emotional Rescue» (Soccorso emotivo) forse un’ironica richiesta d’aiuto da chi ha quasi raggiunto la quarantina, e da vent’anni batte i palcoscenici di tutto il mondo con i risultati invidiabili, ma la cassa batte ancora in quattro alimentata a un groove funkified ed gli Stones entusiasmano ancora i frequentatori delle piste da balli. È il suono degli anni Ottanta, il decennio breve che risucchia tutto in un vortice modaiolo e consumistico. Quindi ecco spuntare all’orizzonte «Tattoo you», album vendutissimo, con in copertina i volti tatuati dei soli Jagger e Richards, padroni quasi assoluti e menti della premiata ditta «The Rolling Stones». La scena musicale era mutata profondamente e gli anni Ottanta avrebbero prodotto una sorta di «melting-pot» di generi in grado di colpire un pubblico eterogeneo per estrazione sociale, culturale e fasce d’età.

Tutto quello che verrà, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, imperniato sempre sui due o tre «vecchi cari accordi», sarà un prolungamento, un ammodernamento ed un restyling di tutto il vissuto musicale precedente. Sempre sulla cresta dell’onda fino ai giorni nostri: belle donne, matrimoni, divorzi, figli, vita mondana ad alta velocità, ma con lunghi periodi di «decompressione» in cliniche di lusso e beauty-farm per soli ricchi, di tanto in tanto un disco, una imponente tour per il mondo, al fine di ricordare a tutti che, anche a distanza di sessant’anni, la più grande rock band ha sempre lo stesso nome: «The Rolling Stones» e Mick, con i suoi quasi ottant’anni, ne è sempre il capo carismatico. Certo, niente più droga e sbronze colossali. In caso di affaticamento coronario, dietro il palco c’è l’infermeria col defibrillatore. Per il sesso, beh, per il sesso, c’è sempre il Viagra.

The Rolling Stones