// di Guido Michelone //
PREAMBOLO
Le poche notizie sugli anni di formazione di Evola si possono ricavare dall’autobiografia intitolata «Il Cammino del Cinabro», pubblicata nel 1963 dall’editore Scheiwiller e che, nelle intenzioni dell’autore, sarebbe dovuta uscire postuma, la quale più di ogni altro scritto di Evola contribuì alla nascita del culto del suo autore.
Tra idealismo sensoriale ed astrattismo mistico: «Non tardai però a riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l’orientamento del futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell’istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A quest’ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti costoro, con alla testa l’iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda anti-germanica, credendo sul serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della libertà contro il barbaro e l’aggressore (…) Oserà dunque il fascismo assumere qui, qui donde già le aquile imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare, regale […] oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione mediterranea?»
Curiosamente il jazz, da sempre oggetto di svariati paragoni con altre musiche di svariate nazioni o continenti, purtroppo non contempla studi approfonditi sulle analogie culturali (in senso etno-socio-antropologico) con la musica dei Rom. C’è solo un’unica ambigua eccezione: lo scrittore romano filo-nazista Julius Evola (1898-1974) del quale nel 2018 l’editrice Jouvence Sophia pubblica l’antologia «Da Wagner al jazz», dove vengono raccolti gli scritti che, dagli anni del fascismo sino a quelli di piombo (in cui egli apertamente appoggia la destra eversiva extraparlamentare), questo singolare ideologo dedica più o meno occasionalmente alla musica amata/odiata in circa mezzo secolo di tragicomiche peripezie: nella tormentata superomistica e dannunziana esistenza, Evola passa ben presto da pittore dada mistico-anarcoide a filosofo vicino ad Adolf Hitler e nel dopoguerra al neofascismo italiano bombarolo; ovvio che di jazz non ne capisse nulla , intriso di livore nella peggior retorica della destra pseudo culturale; tuttavia al di là degli sfoghi razzisti (assurdi quelli contro la cantante/ballerina Lola Falana) Julius invidia al jazz il tratto dionisiaco che invece sta scemando in tutta la musica occidentale (classica e pop) con la sola eccezione dei Rom.
Evola infatti sostiene – non senza molte ragioni, alla luce dei fatti odierni – che in Fondo l’Europa ha il jazz sotto casa nelle sonorità tzigane; anziché cercare il nuovo in America (e peggio ancora, secondo lui, tra i «negri») sarebbero da sviluppare le peculiarità espressive tzigane (ritmo, vivacità, improvvisazione, languore, solarità) esistenti già molto prima della black music modaiolo e pochissimo sfruttata, in chiave moderna da gruppi, cantanti, orchestre da ballo sul Vecchio Continente. Non si sa fino che punto Julius conosca lo swigan-gitan, Reinhardt, Grappelli e compagnia, ma sta di fatto che è vero che nessuno ancor oggi (Ungheria compresa) pensi a un sound rielaborato dalla cultura dei Rom, in parallelo non solo al jazz, ma oggi anche al rock, al soul, al rap, eccetera: anzi sarà più facile che i Rom si dedichino presto alla trap o all’hip-hop vista la globalizzazione che sta umiliando tradizioni folcloriche su tutto il Pianeta.
Marcello Veneziani (noto intellettuale di destra), ne giustifica il pensiero, cercando di ammansirne gli effetti catastrofici, ma non c’è da meravigliarsi: «Evola fu teorico di un razzismo spirituale che non piacque ai razzisti doc e ai nazisti ma gli restò addosso come il suo peccato originale. Non c’è in lui odio antisemita né alcun fanatismo, c’è perfino una dignitosa coerenza, riconobbe Renzo De Felice. Ma Evola prescinde totalmente dai fatti e dalla tragedia dello sterminio e si attesta solo sui principi; ciò infonde un tono astratto alle farneticazioni della razza, qui ridotte peraltro da lui a «una parentesi» nella sua vita e nella sua opera. Evola confessa di aver rasentato da giovane, l’area delle allucinazioni visionarie e forse anche della pazzia e una specie di cupio dissolvi, un impulso a disperdersi e a perdersi».