// di Francesco Cataldo Verrina //

Joe Henderson per lungo tempo è stato tenuto in disparte ed i riconoscimenti nei suoi confronti sono stati assai tardivi. Ancora oggi rimane tra i sassofonisti jazz meno conosciuti alla massa fra i nomi di spicco degli anni ’60. In quel decennio fu particolarmente apprezzato soprattutto dai colleghi e dai produttori discografici. Dal 1963 al 1967 il suo sax tenore è in primo piano almeno in una ventina di album della Blue Note. Alcuni di questi dischi stabilirono le nuove coordinate dell’hard-bop e del post-bop e potrebbero essere tranquillamente inclusi in qualsiasi Top 100 Jazz; molte di quelle session definirono, inoltre, la futura direttrice di marcia dell’etichetta di Lion. Purtroppo il numero di album di catalogo usciti con il suo nome come leader era stato piuttosto esiguo, con l’aggravante che parecchi di questi lavori vennero immessi sul mercato in un secondo tempo. Così, mentre il jazz subiva la sua crisi più nera a livello di popolarità negli anni ’70, molti musicisti, tra cui Henderson, dovettero migrare verso altri lidi. I più attenti ai mutamenti notarono subito la sua presenza nella sezione fiati dei Blood Sweat and Tears. La fortuna gli arrise a metà degli anni ottanta, quando il tanto agognato riconoscimento, che il sassofonista attendeva, giunse con tre album realizzati per la Verve, i quali si aggiudicarono un Grammy ciascuno. “Lush Life”, “So Near So Far” e “Double Rainbow” diedero nuovo slancio e vigore alla sua carriera.

Joe Henderson – “Page One”, 1963
“Page One”, del 1963, è stato il primo album di Joe Henderson come band-leader, sicuramente il più riuscito tra quelli del primo periodo. Esordio fulminante con un gruppo di prim’ordine. Oltre ad Henderson al tenore, ci sono Kenny Dorham alla tromba, McCoy Tyner al piano, Butch Warren al basso e Pete LaRoca alla batteria. Una piccola nota curiosa: Tyner in realtà non è accreditato sulla copertina della prima edizione dell’album, sulla quale si elencano gli altri quattro musicisti, e poi etc. la Blue Note temeva di riconoscere apertamente la presenza di Tyner, il quale aveva appena firmato con un’altra etichetta. Il titolo “Page One” è emblematico per questo disco, poiché segna l’inizio del primo capitolo di una lunga carriera con uno memorabile set che include “Blue Bossa” e “Recorda Me”, due titoli che resteranno legati all’attività concertistica di Henderson per tutta la vita. Entrambe le composizioni pur essendo basate sullo stille bossa-nova, presentavano una struttura più complessa ed evoluta rispetto alla tendenza filo-brasiliana di facile ascolto che imperversava in quel periodo.

Henderson e Dorham costituirono il fulcro diventando una coppia di fatto su queste, ma anche su altre tracce come “Homestretch” e “Jinrikisha”, attraverso scambi e contrappunti da manuale. I due musicisti denotavano una prodezza compositiva già matura, che, presto, sarebbe diventata il marchio di fabbrica di Henderson. Esemplare il tocco blues di “Out of the Night”, caratterizzato dall’intenso lavoro del leader che lascia intuire molto di ciò che avrebbe sviluppato nei capitoli successivi della sua carriera. “Page One” incrocia grooves latini, bop e bossa-mid-time. Dorham sceglie un inedito vibrato per la sua tromba, Henderson suona audace ed a volte molto “Rollinsish”, mentre Tyner mostra un insolito tocco ricamato. “Jinrikisha” è un brano premonitore: gli accordi accatastati in blocco e verticalizzanti di Tyner, supportano gli assoli di Henderson che suona in odor di John Coltrane. Un anno dopo Tyner avrebbe supportato Trane nel classico di tutti i tempi: “A Love Supreme”, mentre nel 1967 Henderson sarebbe entrato di diritto nella storia del jazz modale partecipando all’iconico album del pianista: “Real McCoy”.

Joe Henderson – “Four”, 1968 (1994)
Nella primavera del 1968, Joe Henderson venne contattato a New York dal pianista Wynton Kelly, che gli propose di unirsi al suo trio, per un concerto da tenersi la sera del 21 aprile a Baltimora, presso la Left Bank Jazz Society. In quei giorni di mutazioni sonore e cambiamenti epocali, il nuovo sassofonista tenore non convenzionale sulla scena, ma aperto alle collaborazioni inter pares, era Joe Henderson, già membro dell’hard-soul quintet di Horace Silver, braccio destro di un veterano del bebop, il trombettista Kenny Dorham, ed uomo di punta nella rivoluzione modale insieme al pianista d’avanguardia Andrew Hill.

Henderson aveva anche cercato di vestire i panni di John Coltrane nell’album del 1967 di McCoy Tyner “The Real McCoy”, facendolo sembrare molto simile a una registrazione del classico “quartetto”, complice la presenza del batterista Elvin Jones. La richiesta colse il sassofonista di sorpresa: Wynton Kelly capeggiava da oltre dieci anni un trio con Paul Chambers al basso e Jimmy Cobb alla batteria, un line-up perfettamente collaudato. Henderson racconta che, prima di accettare, ebbe qualche perplessità, temeva, non avendo mai suonato prima con loro, di non riuscire ad inserirsi adeguatamente in un team già così affiatato. Per facilitare la performance del neonato quartetto la scelta della playlist della serata cadde su una serie di brani alquanto noti e, nonostante i timori iniziali, si instaurò subito un ottimo feeling tra i sodali, mentre il risultato dell’esibizione fu strepitoso. Il concerto venne registrato interamente: quasi due ore e mezzo di musica, ma i nastri rimasero chiusi in qualche cassetto per circa 25 anni. Henderson spinse la sezione ritmica su un territorio inatteso: la sensualità del sax a tostatura lenta incastonata in quel perfetto supporto ritmico raggiunge livelli da accademia del jazz. Sebbene i tre, nella loro perfetta simbiosi, non avessero mai suonato con un sax tenore in precedenza, furono molto ispirati e corroborati dalla presenza di un Henderson in forma smagliante.

Nel 1994 la Verve decise di pubblicare un album intitolato “Four” contenente una selezione di sei brani scelti fra i migliori della serata. L’idea del titolo non si riferisce solo al numero dei musicisti, ma anche a un brano di Miles Davis, “Four” proposto dai quattro durante il set. La composizione, scritta originariamente proprio per essere eseguita in quartetto, venne incisa da Davis per la prima volta nel 1954 con Horace Silver, Percy Heath e Art Blakey. Henderson estende fino ai limiti delle sue possibilità il materiale armonico e melodico a volte in contrasto con l’eleganza formale e il profondo swing della sezione ritmica, soprattutto il batterista Jimmy Cobb sembra reagire al modus operandi di Henderson con molta più energia di quanto non facesse normalmente. Soprattutto due vecchi cavalli di battaglia come “Four” e “On Green Dolphin Street” vengono riportati a nuova vita, anche se l’imprinting del trio rimane molto ancorato allo stile coltraniano. Una piccola curiosità: le copertine americane ed europee di “Four” sono diverse, ciò a volte genera un po’ di confusione.

Joe Henderson – Mirror Mirror, 1980
“Mirror Mirror” è uno degli album più raffinati di Joe Henderson alla testa di un line-up di giganti del jazz: Chick Corea al pianoforte, Ron Carter al basso e Billy Higgins alla batteria. Un dettagliato palcoscenico sonoro, che mette in mostra un ensemble capace di toccare in ogni partitura i tasti giusti della sensibilità di qualunque fruitore, forte di doti tecniche e caratteristiche espressive che hanno influenzato l’intera comunità del jazz mondiale, passata e presente. Le linee ariose e fluide di Henderson, attraverso inflessioni contrastanti, movimenti trasversali e dinamiche ben calibrate sono gli elementi che guidano la band verso un viaggio sonoro autorevole e convincente. Da sottolineare, in particolare, il costante lavoro di Higgins alla batteria, il quale fornisce lezioni spontanee di arte percussiva, elaborando ritmi con accenti nitidi, scattanti metriche bop, mentre i suoi colpi orientati alla precisione, quasi impeccabili e ben assestati sui piatti con consumata abilità, diventano un efficace traino per tutto il gruppo. Candlelight”, firmata Ron Carter, è una progressione mutevole, un up-tempo che si trasforma in una ballata mid-range in un battibaleno, sostenuta dal contrappunto e dal ricco blocco di accordi sprigionato dai tasti di un Corea in uno stato di grazia, mentre le spazzolate ampie e delicate di Higgins incorniciano alla perfezione ogni movimento della band; l’assolo finale del pianista senza accompagnamento diventa una lezione da alta accademia del jazz. Il quartetto procede disinibito e con passo sicuro attraverso un’altra composizione di Carter “Keystone”, imperniata su un’architettura sonora dal groove funkified e dal ritmo tagliente, plasmata dall’assolo di Corea e dalle linee quasi poetiche di Henderson, mentre la retroguardia ritmica gioca a tutto campo con un tocco quasi centripeto.

Il sax di Henderson diventa un’abbondante cornucopia, servita con potenza e decisione, specie durante la sua composizione “Joe’s Bolero”, un coriaceo bop dagli accenti latini e dal battito swingante. L’ensemble vira e cambia direzione, passeggiando sui carboni ardenti di un fluttuante standard come ”What’s New”, seguito da un bruciante bop, “Blues for Liebestraum”, scritto da Corea. “Mirror Mirror”, Registrato nel gennaio 1980 allo Studio Masters di Los Angeles, è un album paradigmatico che oltrepassa senza fatica l’usura del tempo e l’insidia delle mode vaganti, attraverso un concept sonoro cristallino e corposo, unitamente alle ricche accentazioni musicali e alle perfette intuizioni di quattro artisti di alto rango, i quali si muovono agilmente inter pares alla ricerca di imperitura gloria.

“Double Rainbow” – John Henderson, 1995
Il terzo album di Joe Henderson su Verve, originariamente, doveva essere una collaborazione con il re della bossa nova, Antonio Carlos Jobim, ma la morte inaspettata di quest’ultimo trasformò il progetto in una sorta di memoriale, che va oltre la banalità del semplice tributo, rielaborando una dozzina di opere del compositore carioca con due gruppi separati: un quartetto brasiliano con la pianista Eliane Elias ed un trio jazz formato da Herbie Hancock al piano, dal bassista Christian McBride e da Jack DeJohnette alla batteria. Henderson evita le composizioni più famose e scontate di Jobim a favore di alcune melodie più oscure, ma ugualmente gratificanti dal punto di vista musicale, e in alcuni casi, come in “No More Blues” il trattamento risulta sorprendente. I punti di forza di questo album, molto accessibile anche per i neofiti. I momenti più imprevedibili per le inusuali traiettorie creative, sono “Felicidade”, “Triste”, “Zingaro” e un duetto con il chitarrista Oscar Castro-Neves in “Once I Loved”, ma ogni traccia di “Double Rainbow” ha ragione di essere per completezza ed inventiva. Altamente raccomandato.