// di Guido MIchelone //
Derek Bailey, un chitarrista che fin dai primi anni Settanta sostiene l’’improvvisazione quale essenziale attività pratica, organicamente legata al rapporto empirico con lo strumento (nella sua dimensione tattile, ovvero l’”impulso strumentale”), avendo la radice nel “continuum psicofisiologico” dell’improvvisatore ed essendo refrattaria a una piena aut oggettivazione. Ciò acquista un significato fortemente anti-concettuale: significa rifiuto di ogni sistema “intellettuale” di organizzazione della materia sonora in un atteggiamento dichiaratamente antiaccademico, con bersaglio gli approcci sia della musica sperimentale dotta sia dell’alea alla John Cage; e il ‘nemico’ è pure l’elemento preordinato, compositivo nella prassi musicale, laddove la pratica contiene informazioni, possibilità di scelta, è un livello operativo concreto, che la teoria non può né immaginare né codificare. Dererk Bailey fa tutto questo e lo teorizza pure, nel libro Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica. Questo atteggiamento, tanto in Italia quanto soprattutto nel Nord Europa, è motivata anche dai gusti di un giovane pubblico esigente che si rivolge persino ai casi estremi, artisticamente parlando, onde ribadire un’ideologia politica massimalista, riflesse in scelte estetiche azzardate, in una weltanschauung dove tutto ‘sarebbe’ alternativo. Accade quindi che molti ragazzi, grazie ai lavori di mensili come «Gong» e «Muzak» – redatti da giornalisti di poco più anziani di loro – si mettano, grosso modo a metà degli anni Settanta, ad ascoltare ad esempio un jazzista radicale come Derek Bailey, all’epoca quarantacinquenne, essendo nato a Sheffield il 29 gennaio 1930 (per mancare a Londra il 25 dicembre 2005). Visto ai concerti (o nei rari filmati) si intuisce la sua originale grandezza, molto più che nei molti dischi a suo nome o col gruppo Iskra 1903.

In merito al recente compleanno di Bob Dylan (80 anni ben portati!), qualche considerazione sui suoi rapporti con il jazz e più in generale con la musica afroamericana. Il cantautore Premio Nobel, come si sa affiliato sia al folk sia al rock, sin da giovanissimo ha intonato blues e spiritual classici e ha scritto canzoni in quelle forme. Di recente il penultimo e terzultimo album sono composti esclusivamente di standard degli anni ’30-’40-’50, ma è in particolare durante i Seventies che si trovano alcuni suoi brani jazzati o swinganti.
Da Self Portrait (1970) a Saved (1980) sono ben tredici gli album ufficiali (comprese due antologie) editi durante i Seventies, il decennio numericamente superiore agli altri sei di una pur abbondante messe su vinile e su CD. Ma non è solo questione di cifre: benché gli inizi vengano ricordati grazie al passaggio dalla protest song voce-chitarra-armonica verso l’adozione di strumenti elettrici comportamenti un avvicinamento alla cultura rock, senza con questo tradire i principi della musica folk, solo però gli anni ’70 a completare tale metamorfosi mescolando il tutto, ossia cominciando ad esempio a ricordare nell’autoritratto musicale – con cui non per caso inizia il decennio – le proprie radici musicali e i propri gusti estetici, finendo quindi con l’abbracciare quasi tutte le forme della musica popolare americana dal country al bluegrass, dal blues al gospel, dal r&b al r’n’r, dal jazz al classic song, oltre naturalmente il folk e il rock. Leggendo poi l’articolo L’intervista inedita e le lettere perdute di Bob Dylan di Douglas Brinkley – docente di Storia alla Rice University, nonché storico per la CNN – su «Rolling Stone» – uscito in Italia il 20 novembre 2020 – si parla di tre interviste ‘ritrovate’ risalenti al 1971, in cui inaspettatamente Bob Dylan si confessa su vari argomenti: e c’è già tutto l’artista multiforme che tutti conosco: un artista che conosce bene e apprezza molti il jazz, indipendentemente da cosa o come sia la propria musica!

In Italia esistono categorie di ascoltatori, critici, studiosi e musicisti (tutti rispettabilissimi, nonché dotati di acume, intelligenza, preparazione, cultura, ecc., ecc.) che però non ammettono derive o sconfinamenti, come se ad esempio, per i jazzologi-jazzofili-jazzisti, ascoltare Renato Carosone o peggio ancora definirlo un “vero jazzista nell’animo” fosse un peccato mortale. Cito proprio questo grande artista perché ieri sera una buona fiction della RAI intitolata “Carosello Carosone” ci parla della vita del cantante/pianista/compositore/bandleader dalla nascita sino al ritiro dalle scene nel 1960, con un gesto di coraggio e umiltà (su cui potremmo discutere a lungo). Carosone all’inizio è un jazzista e non a caso si esibisce alla Carnagie Hall, lo stesso luogo, come gli ricorda l’amico batterista Gegé Di Giacomo, dove come e prima di lui fanno il tutto esaurito Loui Armstrong, Ella Fitzgerald, Benny Goodman. Il Carosone da hit parade (tre brani nelle classifiche USA , mai successo a nessun altro italiano!), però suona una musica tutta sua, una ‘world music ante litteram’, che mescola sapientemente lo swing, la melodia italiana, il folk partenopeo, il cabaret, il musical, anticipando persino il rock’n’roll tricolore e il punk demenziale. Si capisce insomma che Carosone ama il Nat King Cole Trio, Duke Ellington, Spike Jones, Vincenzo Scarpetta e la sceneggiata napoletana e li fonde allegramente in un unicum che va oltre la forma-canzone e che perciò ancora oggi spiazza chi si occupa a compartimenti stagni di jazz, di rock, di pop, di teatro, di canzone d’autore. Ma Carosone è imprescindibile per capire sia la storia della msuica leggera sia quella dello spettacolo nazionale dal dopoguerra ai Sixties. L’unico che all’epoca può stargli alla pari è Fred Buscaglione, non a caso anch’egli scomparso con il 1960 (ma per un incidente mortale). L’unico invece che oggi può raccoglierne l’eredità è proprio Stefano bollani che non per caso compone la colonna sonora di “Carosello Carosone” che sa suonare e cantare di tutto (e lo fa pure bene, vedasi la mezz’ora d’intrattenimento di RAI TRE). Un altro, infine, nel solco di Carosone e di Totò è Daniele Sepe, altro vero jazzista, poco studiato a causa della sua versatilità che per tanti Italiani è una colpa, anziché una risorsa.

Da quando è morto, si parla molto poco di lui, ma vorrei in breve ricordarlo. Joseph Erich Zawinul (1932-2007), per tutti Joe, forse il maggior tastierista d’ogni tempo, resta sicuramente un personaggio-chiave per la storia del jazz, della fusion, del funky, persino del rock e della world music grosso modo dal 1967 per un quarantennio. Ma come si riconosce la grande musica in quest’uomo baffuto, basso di statura, una calvizie giovanile, spesso, da quarantenne invecchiato, nascosta da buffi copricapo che sono l’unico concessione al look giovanilista in mezzo alle tenute hippy multicolori di tanti colleghi?
Per Joe, grazie a Miles (e a Wayne) significa a 38 anni lasciare la sicurezza del mondo jazzistico per avventurarsi nelle sonorità giovanili che egli stesso contribuirà a rinnovare lungo gli anni ’70 fondando i Weather Report, mettendosi in gioco quindi come artista, in grado di preferire di gran lunga il futuro al passato. Va ricordato che in quel periodo, benché amato appunto dalla generazione di Woodstock, il jazz-rock in America è ‘odiato’ da molti jazzofili puristi, che hanno poi da ricredersi, leggendo ad esempio sul mensile jazz «Down Beat» il nome di Joe Zawinul come vincitore di svariati referendum consecutivi quale miglior tastierista elettronico. In fondo basta ascoltare alcuni dei capolavori registrati dai Weather Report tra sedici album ufficiali dal 1971 al 1986, quali ad esempio I Sing The Body Electric, Sweetnigher, Black Market, per limitarsi a soli tre titoli, anche se, giustamente, ciascuno di noi ha il proprio preferito. Per me il top rimane lo ‘sperimentale’ I Sing The Body Electric…