// di Francesco Cataldo Verrina //

Joe Handerson & Woody Shaw – “Jazz Patterns”, 1970
Qualcuno sostiene che la “connessione” tra il trombettista Woody Shaw e il barone del sax tenore, Joe Henderson fosse predestinata, sicuramente un dono della divina provvidenza, soprattutto per i moltissimi dischi dove hanno suonato e composto come gregari di lusso. La loro collaborazione affonda le radici nel periodo forse più fluido della Blue Note, pare che lo studio di Rudy Van Gelder fosse diventato per entrambi una seconda casa. Henderson e Shaw siglarono a quattro mani nel 1970, “Jazz Patterns” ed un successivo “In Pursuit of Blackness” nel 1971.
L’album in oggetto si sostanzia in sole tre lunghissime tracce: “Invitation” della durata di oltre quindici minuti, “Lofty”, nove minuti e “What’s Mine Is Yours” che supera addirittura i diciassette minuti. La title-track, che si esprime un ottimo post-bop a scrittura trasversale ed obliqua, con qualche volo libero ma sotto controllo radar; il titolo è alquanto emblematico, ossia “jazz patterns”, “schemi o modelli di jazz”. Il disco è concepito come una modello di studio su cui fare esperimenti partendo da un tema, sviluppandolo in tanti modi possibili: si passa dall’approccio hard-bop a quello modale, dall’accenno free al latineggiante. Un disco geniale, ma siamo nel 1970 ed il jazz aveva già sperimentato molto.Questo il line-up: sassofono tenore Joe Henderson, tromba e flicorno Woody Shaw, basso Ron McClure, batteria Lenny White, basso elettrico, Ron McClure, piano elettrico George Cables.

Kenny Garrett Quintet – “Introducing Kenny Garrett”, 1984

Kenny Garrett, sassofonista contralto di Detroit, tanto bravo quanto ignorato, nonostante la forza e la ricchezza di tono, di sfumature e di timbro mostrata già all’età di ventiquattro anni con la pubblicazione di questo suo primo album, in cui è possibile rinvenire tracce di Cannonball Adderley e Charlie Parker ed una lieve influenza coltreiana. Come molti “rampolli” della sua generazione, Garrett arrivò in un momento difficile per il jazz mondiale ed il conseguente declino dei live nei club (vera fucina e palestra di talenti), dovuto in gran parte al potere mercantile dei mass media e alle scelte di tanti jazzisti di grido, impegnati a trasferire altrove i propri impegni.

Registrato il 28 dicembre 1984 al Van Gelder Studio, “Introducing Kenny Garrett” è album piacevole, ben orchestrato, che mette in luce le capacità compositive del titolare del progetto, ma per contro tradisce qualche ingenuità dovuta all’inesperienza del leader; ciononostante, contiene tutti i prodromi di quella che avrebbe dovuto essere e che, forse solo in parte, sarà una carriera significativa. Garrett aveva precedentemente suonato con la big band di Mercer Ellington, ed, in quel periodo, lavorava come freelance a New York. Qualche anno più tardi sarebbe arrivata la sua collaborazione con con Miles Davis. Nel set, l’altoista si avvale di ottimi sodali: Woody Shaw alla tromba e al flicorno, il pianista Mulgrew Miller, il bassista Nat Reeves ed il batterista Tony Reedus. Il quintetto esegue cinque originali in stile hard-bop, firmati da Garrett, tra i quali spiccano “For Openers” e “Oriental Tow Away Zone”, “Blues In The Afternoon” scritta Miller ed un paio di standard come “Lover” e “Have You Met Miss Jones”. Nulla di rivoluzionario, lo stesso Woody Shaw non produce fuochi d’artificio e sembra eseguire un compitino senza strafare, ma l’album merita un ascolto.

Buddy Terry – “Pure Dynamite”, 1972
Questa è davvero una gemma trascurata dei primi anni ’70, “Pure Dynamite” di Buddy Terry mescola post bop e fusion in uno stile assai simile a ciò che stavano facendo personaggi come Freddie Hubbard e Sonny Rollins nello stesso periodo, ma Terry distilla anche alcune sonorità psichedeliche, soprattutto l’insieme si muove verso una progressione libera che spinge la sua musica verso il terreno sondato dal Sextet di Herbie Hancock. La connessione al Sestetto è favorita dalla presenza di Eddie Henderson e Billy Hart. Parliamo di post bop che rasenta le avanguardie e la fusion, quindi non sorprende l’adesione al progetto da parte di Lenny White, Airto e Stanley Clarke. Il resto del cast di questo album all-star comprende anche Joanne Brackeen, Mtume, Woody Shaw e Kenny Barron.

L’album si apre con “Quiet Afternoon”, che parte in modalità fusion-psichedelica, prima che Stanley Clarke sviluppi la linea del basso in doppio tempo, offrendo ai solisti lo spunto ed il sostegno per scatenare il loro fuoco di fila. Lungo tutto il percorso dell’album i solisti giocano a volte in appoggio agli altri, scambiandosi i ruoli e aggiungendo contro-melodie o assoli occasionali, quasi in una sorta di pacifica competizione. E’ un gioco di squadra, dove ogni tanto qualcuno s’invola in solitaria, per essere ripreso da un altro, il quale a sua volta si sposta nella direzione opposta, cedendo la staffetta al successivo contendente. Ciò genera una trama sonora complessa ed imprevedibile, sostenuta da un ricco substrato di percussioni ed effetti sonori. L’album rispecchia la ricerca, lo sperimentalismo e lo stile degli anni ’70, ed è un prodotto di quella cultura, momento molto proficuo, basato sull’innovazione costante, quando il post-bop confinava e sconfinava nella fusion e nell’avanguardia free. “Pure Dynamite” è un album solido e basato su una creatività dinamica e di forte impatto emotivo, soprattutto uno semi-sconosciuto come Buddy Terry, validissimo altoista, meriterebbe molti più riconoscimenti di quanti ne abbia ricevuti.

Charles Mingus – “East Coasting”, 1957
“East Coasting”, registrato nell’agosto 1957, è una session di Mingus poco trattata dalle cronache del jazz, ma si basa su cinque magistrali componimenti originali del bassista con l’aggiunta dello standard “Memories Of You”. La qualità dell’insieme, sostenuta da ottimi arrangiamenti, dovrebbe portare questo disco ad una rivalutazione storica e ad un meritato riconoscimento. Charles Mingus scese in campo accompagnato dai sodali dell’epoca: il trombonista Jimmy Knepper, il trombettista Clarence Shaw, Shafi Hadi al tenore e contralto, il batterista Dannie Richmond ed uno sconosciuto pianista, tale Bill Evans, che suona in maniera più asciutta, aggressiva e veloce, rispetto quanto farà in futuro. L’album, dal tono intensamente lirico, si spinge oltre i confini del bop, senza però mai sconfinare nel prevedibile, attraverso un’esecuzione estremamente stimolante; forse una risposta a l’imperante “West Coasting Style” di quegli anni.

Tutti i brani risultano sorprendentemente accessibili e fortemente melodici e sono lontani da certi sperimentalismi, che, invece, a tanti neofiti o detrattori del contrabbassista potrebbero apparire più astratti. Fra tutti spicca “West Coast Ghost”, che da solo vale l’intero costo del viaggio ed è già un’opera mingusiana finita; addirittura, avrebbe potuto essere la base per un successivo album: undici minuti d’ispirazione funky, suonati con decisione da tutto l’organico con forte senso della collegialità ed una sintonia quasi telepatica; tanto da riportare alla mente la forma espressiva di molti brani presenti su album come “Blues And Roots”. La bellezza di “East Costing” è inversamente proporzionale alla sua scarsa nomea. In tema di viaggi di fantasia, e metafora per metafora, questo album potrebbe diventare un viaggio-premio per chiunque decida di aggiungerlo alla propria collezione.

Joe Zawinul – “Zawinul”, 1971
Zawinul sta estendendo i pensieri che abbiamo avuto entrambi per anni. E probabilmente sono quei pensieri che i musicisti più famosi di adesso non sono ancora in grado di esprimere”. Una chiara dichiarazione di Miles Davis in merito a questo album di Joe Zawinul, dal titolo emblematico “Zawinul”, pubblicato dall’Altantic nel 1971 e frutto della sinergia di un ottimo line-up: oltre a Zawinul, Herbie Hancock alle tastiere elettriche, George Davis al flauto, Woody Shaw alla tromba, Earl Turbinton al sax soprano, Mirolsaw Vitous e Walter Brooker al basso, Joe Chambers, Billy Hart e David Lee alle percussioni. L’album è una sorta di viaggio onirico a ritroso nel tempo e calato in una sorta di jazz progressivo a volo libero. Un viaggio ipnotico che si incanala in un percorso fatto di atmosfere liquide, quasi rarefatte, dove la successione degli strumenti, sia pure ben strutturata e basata su alcune motivazioni descritte dell’autore, potrebbe risultare all’orecchio dell’ascoltatore frutto di immaginazione e di pura improvvisazione free-fusion.

In realtà, Zawinul descrive ognuno dei temi sviluppati con una sorta di lungo sottotitolo abbinato ad ognuno dei cinque componimenti presenti nell’album. Il tema di apertura “Doctor Honoris Causa”, è dedicato alla laurea ad honorem ricevuta da Hancock alla Grinnell University dell’Iowa, una lunga suite di 14 minuti e 47 secondi, che si accredita come uno dei momenti più suggestivi dell’intero album; “In A Silent Way” riporta le impressioni dell’autore sulla vita di un giovane pastore austriaco, calato nel silenzio e nella natura; con “His Last Jouney”, Zawinul rivive il giorno del funerale di suo padre in Austria; “Double Image” è il tema con la struttura più innovativa e rimanda al Davis più irrequieto del periodo fusion. Come dal titolo, ci s’interroga su ciò che l’uomo sia realmente rispetto a ciò che crede invece di essere; con “Arrival in New York”, Zawinul cerca di descrivere le sue emozioni, quando giovanissimo approdò a New York con una nave proveniente dalla Francia. “Zawinul” è un album dalla forte intensità lirica e poetica, musicalmente elaborato e marcatamente innovativo, di lettura non facile per neofiti, ma di certo potrebbe risultare assai interessante per cultori del jazz ad alta contaminazione.