Anthony Williams – «Spring», 1966
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel 1966, quando l’album venne dato alle stampe, la Blue Note stava subendo una mutazione non solo aziendale (era passata nelle mani della Liberty/Transamerica), ma soprattutto musicale: gli innovatori si accingevano prendere il sopravvento. Ascoltando con attenzione «Spring» di Tony Williams, ci si accorge che è difficile trovare tanta lungimiranza ed apertura creativa in molti dischi pubblicati nello stesso periodo e considerati prodotti d’avanguardia. Nella sua controllata fuga dal prevedibile, l’album rappresenta un gioiello di arte moderna, come quasi tutti i lavori dei batteristi-leader che sembravano imbattersi nella genialità compositiva con più facilità. «Spring» può essere paragonato ad un banchetto non convenzionale, dove i commensali sanno mangiare garbatamente, usando coltello e forchetta, senza sporcarsi i vestiti, ma soprattutto i musicisti convenuti, alla fine, non hanno neppure le mani unte come tanti cantori del free jazz di quegli anni, aderenti al fenomeno solo per opportunismo: ad un certo punto il mondo dovette imparare a distinguere tra jazzisti e rumoristi.
Registrato al Van Gelder Studio il 12 agosto 1965 e pubblicato nel febbraio del 1966, «Spring» fu il secondo album firmato da Tony William come band-leader per la scuderia Blue Note. Il batterista si comportò da perfetto anfitrione con Wayne Shorter e Sam Rivers al sassofono tenore, Herbie Hancock al pianoforte e Gary Peacock al basso, offrendo loro un piattaforma sonora per una delle migliori esecuzioni di sempre. L’idea di usare due sassofonisti si rivelò assai azzeccata. Shorter e Rivers erano entrambi due lottatori da front-line, il che diede luogo ad una sana competizione finalizzata ad ottenere una sorta di pole position ideale. Ciò spinse entrambi ad alzare il tiro, quindi ad offrire la parte migliore del campionario creativo in loro possesso. Siamo nel 1965 ed il jazz si sta liberando piacevolmente da certi legami con il passato: il minimalismo della copertina, che diventa una reductio ad absurdum, ne è la dimostrazione. Red Miles disse: «Favoriamo l’espressione semplice del pensiero complesso. Privilegiamo la forma geometrica perché ha l’impatto dell’inequivocabile. Intendiamo riaffermare la monodimensione dell’immagine. Siamo per le forme piatte perché distruggono l’illusione, acquietano l’immaginario e rivelano la verità».
L’espressione latina «riduzione all’assurdo», trova ampia contemplazione all’interno delle varie scuole di pensiero che attraversavano ed assediavano il jazz di quegli anni, stretto tra avanguardie spinte, innovatori smodati, bulimici modalizzatori ed avveduti sperimentatori. Il concetto, di natura filosofica, faceva riferimento ad una tecnica, detta anche dimostrazione per assurdo, usata spesso in matematica e non solo, che consisteva nell’evidenziare la validità di una certa affermazione, sostenendo che, qualora essa fosse stata negata, si sarebbe arrivati ad una contraddizione. Proprio in quei giorni un’agguerrita generazione di giovani musicisti iniziava a tracciare percorsi ed itinerari per la conquista di nuovi territori. Ognuno di essi si sentiva svincolato dalla struttura armonica e libero rispetto alla direzione musicale da intraprendere, giocando sullo sviluppo espressivo piuttosto che narrativo. Non a caso, durante la sessione di «Spring», il beat affluì sorgivamente attraverso una costante propulsione oltrepassando l’idea di tempo formale. In «From Before» Hancock fece il primo passo, tracciando le coordinate del brano, ma non fu un compito facile, poiché ciascuno dei membri del line-up sembrava intendesse suonare in modo completamente indipendente dagli altri.
Eppure tutto l’insieme riuscì ad amalgamarsi in maniera perfetta. In «Love Song» mentre Wayne Shorter si allontanava dal set , tutti gli altri procedettero all’unisono senza trascinarsi in direzioni diverse. Lo sviluppo del tema risultò cristallino e suonato da Rivers con un raro afflato melodico: solo nell’assolo il sassofonista si concesse qualche sonorità più aspra; per contro la melodia distillata da Hancock fu avvolgente, mentre il contrabbasso evitò accuratamente le buche ed i percorsi accidentati; dal canto suo Williams premette un po’ sull’acceleratore, quasi a voler spronare i sodali dal torpore. Nell’esecuzione di «Tee» l’ensemble ritrovò per un attimo il vecchio codice normativo ed un modulo bop più tradizionale, ma con un finale libertario e vagamente dissonante. Il precedente album «Life Time» aveva espresso una maggiore compattezza tematica ed una serie di idee facilmente inquadrabili in ambiti più consueti, ma «Spring» fu un ottimo compost sonoro, a volte trasversale, assemblato da una band che suonava in maniera quasi telepatica, pur dando l’idea di muoversi su molte lunghezze d’onda. In ogni traccia la sezione ritmica avanzò come una linea frontale, mentre ognuno dei partecipanti al set diventava un solista in pectore.
Gli strumenti vennero affrancati dai loro ruoli tradizionali: il piano di Hancock non ammise indecisioni, il basso aggiunse consistenza alla trama narrativa e sfumature di colore all’arazzo melodico. Considerando l’alto tasso di talento della squadra, «Spring» va considerato come una album di riferimento. Gli uomini affiliati al Miles Davis Quintet (Tony Williams, Herbie Hancock e Wayne Shorter), influenzati dalla «nuova cosa», si mostrarono più disinvolti e disinibiti non essendo stretto lo stretto controllo dal burbero trombettista, il quale concedeva ai sottoposti ristrette forme di libertà vigilata con obbligo di dimora. Si aggiunga l’estro di Sam Rivers e Gary Peacock ed il risultato fu quello di una formula pirotecnica imperniata su un melting-pot di influenze non facilmente catalogabili. Le cinque composizioni di Tony Williams, incluso il suo trastullo personale per batteria «Echo», beneficiarono dell’apporto di musicisti intenzionati a raggiungere una dimensione espressiva del tutto inedita e non facile da metabolizzare al primo impatto, soprattutto dai neofiti e dai cercatori di languide ballate. In sintesi, «Spring» è un album di forte spessore creativo che testimonia la nuova corrente di pensiero che andava imponendosi in casa Blue Note a metà degli anni Sessanta, ma che soprattutto non sembra schiacciato dalle banali convenzioni free form del periodo, per contro ci scivola sopra e le oltrepassa senza distruggere tutto ciò che di buono era stato fatto prima.

