Curtis Fuller Quintet – «Blues-ette», 1960

// di Francesco Cataldo Verrina //

PREAMBOLO: il fine dicitore, lo scrittore , il giornalista, lo studioso non dovrebbe mai manifestare le proprie preferenze apertamente, ma in questo caso faccio un eccezione: fra i trombonisti dell’era bop, Curtis Fuller è colui che apprezzo di più. Non entro in merito ai tecnicismi, ma Curtis incarna meglio di altri lo spirito dei tempi (di quei tempi). Sarà l’attacco di trombone in “Love Train” di John Coltrane, brano che disegna le coordinate di un genere, l’hard bop, ed il suono di un’epoca. Come nessun altro sapeva dare al trombone una sonorità un fluida ed invitante, talvolta “ruffiana” con Il fraseggio sciolto, sovente caratterizzato dal celebre “salto di ottava” che l’ha reso negli anni  uno dei massimi player di questo difficile strumento.

La storia del jazz moderno (dove le registrazioni e le session si consumavano velocemente, ma spesso l’immissione sul mercato avveniva in maniera lenta, se non addirittura posticipata) ci ha insegnato che il destino di taluni dischi fu determinato dall’intraprendenza e dalla solerzia o, per contro, dall’indecisione o dall’umore mutevole di taluni produttori, i quali per alcuni aspetti hanno avuto, a seconda dei casi, un ruolo positivo o negativo nella carriera di molti artisti. Se «Blues-ette» del Curtis Fuller Quintet, fosse stato gestito da una casa discografica come la Columbia, la Blue Note, la Impulse! o la Verve, la storia di questo album avrebbe senz’altro avuto un altro corso. Gli uomini della Savoy, piccola etichetta discografica, per quanto si prodigassero ad ingaggiare artisti di vario livello, non furono all’altezza di gestire un lavoro di tal fatta; probabilmente, non ne ebbero neppure la consapevolezza. Banalmente, si potrebbe dire che il talento deve essere incanalato ed immesso in un solco ben preciso, altrimenti si disperde nel melmoso mare magnum dell’indifferenza.

Quel caotico oceano, all’epoca, si chiamava «iperproduzione». Alcuni prodotti assurgevano subito agli onori della cronaca, altri restavano a mezz’aria, molti si disperdevano nel nulla, al massimo potevano contare sul consenso di piccole schiere di appassionati e sulla segnalazione di qualche avveduto critico. Una mole enorme di dischi fu pubblicata molti anni dopo l’avvenuta registrazione, snaturandone il senso, generando confusione e mettendo in difficoltà certi musicisti, che in quel momento stavano sondando differenti terreni di sperimentazione. Per fortuna, il tempo è galantuomo, come si suol dire, e rende giustizia: molti album, caduti troppo presto nel baratro del dimenticatoio, sono stati rivalutati a posteriori, ma non per merito della critica parruccona, tronfia ed austera; sovente sono stati gli appassionati, attraverso una sorta di passaparola generazionale, a scrollarli dalla polvere accumulata negli anni ed a riportarli in auge.

Il vistoso titolo, «Blues-ette», non deve trarre in inganno. Questo è un piccolo gioiello di hard bop. Fior di critici americani sono propensi a sostenere che l’aggettivo «sublime», spesso usato impropriamente ed a cuor leggero, in questo caso sia quanto mai calzante. La fortuna di un album, ovviamente, dal valido contenuto, può essere determinata anche della casa discografica che lo produce. «Blues-ette» del Curtis Fuller Quintet, album spesso sottovalutato, dimenticato e poi riscoperto, non vanta elementi di innovazione totale, sperimentalismi dissonanti, siderali fughe sonore, ma possiede un’intensità straordinaria: il suono asciutto e levigato della prima fila, marcato da un trombone e un sax, tocca le corde dell’emozione dal primo all’ultimo microsolco, con un equilibrio da accademia jazz. Forse fu la presenza del trombone di Curtis Fuller a risultare fuorviante o poco gradita ai critici. Fuller non ottenne il riconoscimento che meritava, probabilmente perché il trombone, glorioso strumento durante la stagione delle big band, tendeva a passare inosservato all’interno di un piccolo gruppo; a molti forse, in quei giorni, poteva apparire come uno strumento superato, non più in grado di incidere sui i cambiamenti della sintassi sonora del momento.

Siamo nel 1960 e la critica, ma anche buona parte dei fruitori del jazz, erano concentrati su gli innovatori come Miles Davis, ma soprattutto sul sassofono chi Ornette Coleman che proponeva il suo «assioma armolodico» o quello di Coltrane impegnato in una sorta di perenne mutamento. Eppure Fuller possedeva un valido curriculum ed innumerevoli collaborazioni; aveva, inoltre, partecipato alle registrazioni di Kenny Dorham, Lou Donaldson, Sonny Clark, nonché di «Blue Train», il più famoso e riuscito album del primo John Coltrane, uno dei cinque dischi più venduti in assoluto dalla Blue Note.

L’incontro con Benny Golson, che tra l’altro ha posto la firma in calce ad alcuni dei momenti più riusciti dell’album, fu determinate. Il quintetto di Curtis Fuller, fu una specie di preambolo a quello che sarebbe diventato il più noto Benny Golson & Art Farmer Jazztet «Meet the Jazztet». Le affinità sono molteplici e la brillantezza di «Blues-ette» si manifesta non solo all’interno dei singoli assoli, ma anche nel funzionamento collettivo del gruppo. Benny Golson (sax tenore) e Curtis Fuller (trombone) sono anche autori di due pezzi ciascuno, mentre completano il quintetto Tommy Flanagan (piano), Jimmy Garrison (basso) e Al Harewood (batteria). Fuller e Golson realizzano un ottimo abbinamento trombone-sax, entrambi si esprimono con uno stile morbido e pulito, completandosi a vicenda. Golson in alcuni frangenti, rispetto a Fuller, tende ad emergere dalle acque tranquille, cimentandosi in un più rapido bopping con raffiche di note: pare che in quel periodo fosse molto influenzato da John Coltrane.

La sezione ritmica procede per tutto il percorso con passo sicuro, senza mai diventare eccessiva o nevrotica. La combinazione dei vari elementi e dei singoli apporti risulta perfetta e controllata, producendo un senso di leggerezza e di alta digeribilità dell’intero album, con delle punte di eccellenza soprattutto in due brani composti da Golson, «Five Spot After Dark» e «Minor Vamp». Ad entrambi i brani sono affidate le aperture delle due facciate: «Five Spot After Dark», si snoda su un veloce blues sincopato con vocazione funkiness. Un piccolo gioiello di modernità, fatto di assoli corti e taglienti: prima il sax di Golson che sembra accendere le luci, squarciare il buio e consegnare alla band le chiavi di una grande metropoli, dove il pianoforte suonato a martello e il trombone a tutta pompa danno un pubblico spettacolo, complice una sezione ritmica che dalle retrovie fornisce il giusto sostegno con colpi decisi e metronomici. «Undecided» è un rotolante hard-bop, impostato alla classica maniera, con un’alternanza di assoli concessi a tutti i componenti della band, quasi una sorta di porto franco per ognuno. Fuller si sbizzarrisce con qualche improvvisazione, ma sempre controllata, mentre Golson pensa di suonare in un disco di Coltrane e se ne va spasso per sedicesimi. Ciò che avvince è il senso della misura. Soprattutto l’unione dei vari tasselli crea un perfetto puzzle sonoro.

La title-track, «Blues-ette», è una fantasiosa composizione di Fuller. La partenza lascia intendere che a ruggire sia un vecchio e stanco leone dal sangue blues, il tono è assai languido e triste, il trombone trova la complicità del basso, ma piano e sassofono svegliano la «bestia» dal torpore, creando un’atmosfera festosa, quasi da valzer. La B Side si apre con «Minor Vamp», altro gioiello estratto dallo scrigno di Golson. Un hard bop adamantino, fatto di assoli sferzanti e raffiche di note. Benny sembra aver rubato di nuovo il sassofono a Coltrane, non gli rifà il verso, ma coglie solo il segno dei tempi, intanto la sezione ritmica gli regge il gioco, mentre lo stesso Fuller, pur cercando di contenere gli eccessi, si adatta bene alla circostanza. «Love Your Spell Is Everywhere» è una ballata mid-range dai cromosomi blues, ma il tono da big band di Fuller e l’aria sorniona del sax di Golson, riportano tutta la combo a più miti consigli, tranne una piccola impennata nel corpo centrale; nel complesso la sagomatura del brano risulta alquanto delineata e tracciabile.

Per finire «Twelve-Inch», a firma Fuller, l’altra piccola gemma dell’album. Composizione assai innovativa: sarà l’essenza sonora del trombone, unita ad un sax dalla voce robusta e decisa, che si ha come l’impressione di sentire, con molti anni di anticipo, quei suoni funkified e metropolitani tipici dei film polizieschi degli anni ’70, come Superfly o Shaft, infarciti di soul-funk jazzato. «Blues-ette» del Curtis Fuller Quintet è un album da scoprire o da riscoprire, di certo non può mancare in qualsiasi collezione jazz che si rispetti. Disco facilmente audio-solubile, anche per neofiti, privo di ogni controindicazione.