Dizzy Gillespie And His Orchestra – «Gillespiana», 1960
Dizzy Gillespie è stata una delle figure emblematiche del bop: se Charlie Parker ne fu il braccio armato e Thelonious Monk la rappresentazione scenica, certamente l’estroso trombettista ne fu il cervello. Gillespie fu l’epitome stessa del bebop, una sorta di enorme volume suddiviso in tanti capitoli: più di Bird o quanto Bird, Diz diede le stimmate al fenomeno. La sua composizione «Bebop» ne è la testimonianza. Charlie Parker fu la luminosa vetrina del nascente bebop, il capo pregiato da esporre, ma Gillespie era il negozio con tutto il magazzino. Più volte Miles Davis sottolineò l’abilità mercuriale, la precisione organizzativa e la capacità decisionale con cui il collega trombettista riusciva a mantenere in piedi il «movimento». Davis, per movimento, intendeva il bebop, che Gillespie superò presto misurandosi su altri terreni, a differenza di Bird e Monk, che pur nella loro estrosità deviata o alterata, rimasero dei personaggi tetragoni, le tipiche monadi all’interno delle quali il genio nasce ed in se stesso si esaurisce; Gillespie, al contrario, fu una sorta di poliglotta del jazz, in grado di esprimersi attraverso linguaggi molteplici con una perfetta sintassi ed un’invidiabile consecutio temporis, soprattutto con un’innata capacità di orientamento e di adattamento ai tempi e alle circostanze. Egli non fu mai un mutante o un dirottatore come Miles Davis, ma piuttosto un incubatore di nuove formule espressive all’interno della modularità compositiva del jazz, una sorta di collettore tra mondi musicali possibili, dove l’Africa diventava l’elemento di giuntura.
In termini di «africanismo dilatato» fu un anticipatore di alcuni concetti culturali e teorici, che ritroveremo più avanti con l’avvento della «new thing». Nel 1950 pubblicò l’album «Afro», un titolo secco e diretto come una scudisciata, con cui sottolineava apertamente l’origine africana della sua musica e, senza paura, l’orgoglio della sua razza proveniente dal continente nero. Molti musicisti, specie negli ambienti free, accostarono il termine «afro» ai loro dischi dieci o quindici anni dopo. Inizialmente il panafricanismo o l’ecumenismo terzomondista non erano molto graditi ai jazzisti, soprattutto alle loro case discografiche che cercavano un riferimento commerciale più generalista ed un prodotto gradito anche al pubblico bianco. Tra gli anni ’50 e ’60, il separatismo e le discriminazioni in USA erano ancora dilaganti. L’esaltazione della natura africana e il senso di appartenenza razziale, in quegli anni, apparivano molto più netti e marcati negli ambienti R&B e Soul. Gillespie fu persona divertente, giocosa e solare: dietro le quinte un po’ burlona, tanto che per i suoi scherzi memorabili gli venne attribuito il nomignolo di «Dizzy»; serio ed impeccabile nella gestione del lavoro; eccentrico e teatrale sulla scena, usava una tromba con la campana piegata e rivolta verso l’alto, rigonfiava la faccia come un palloncino e non disdegnava neppure il canto; lontano da eccessi nel privato, ma sensazionale nelle sue dichiarazioni in pubblico, come quella di volersi candidare a Presidente degli Stati Uniti; forse, perché nato povero, seppe amministrare il suo tempo ed il denaro guadagnato, mostrandosi spesso assai generoso. Tutto ciò gli ha permesso di passare indenne attraverso almeno tre generazioni di jazzisti.
Ci siamo sovente domandati: se fosse vissuto più a lungo e se la sua stabilità mentale glielo avesse consentito, Charlie Parker sarebbe mai riuscito a portarsi cosi «avanti» come fece Dizzy, senza mai perdere la bussola rispetto ai tempi? Una delle ragioni della tenuta artistica di Gillespie va individuata in quella sconfinata curiosità artistica, alimentata da un’inesauribile ricerca del consenso e da un congenito desiderio di misurarsi sempre con situazioni inedite; la sua progettualità multistrato si era già materializzata a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, subendo il fascino della musica antillana e, quando prima di ogni altro, tentò di unire i due universi ritmici di derivazione africana: il jazz statunitense e la musica centro-sud-americana; soprattutto il trombettista fu uno dei primi ad introdurre la clave cubana nel bop. Dizzy capì che molti pezzi latini erano potenzialmente delle composizioni jazz, bisognava solo modificarne la struttura con l’inserimento di un ponte di 16 battute. Il caso emblematico fu quello di «Manteca» termine che in castigliano vuol dire lardo, ma che per i Cubani rappresentava sibillinamente la marijuana. Scritto in collaborazione con il percussionista Chano Pozo, questo brano divenne uno standard ed avviò una lunga stagione di condivisione. Il senso di panafricanismo ecumenico, presente in tutta la musica ritmica suonata nelle Amerindie, va ricercato proprio in un’affermazione del cubano Pozo che, rivolgendoci a Gillespie, disse: «Io non parlo inglese, tu non parli spagnolo, ma entrambi parliamo africano!».
Tra il maggio ed il giugno del 1954, Gillespie registrò «Afro», riprendendo la struttura di «Manteca», che per l’occasione divenne «Manteca Theme», aggiungendo altri elementi di coesione tra Cuba, il jazz nordamericano e l’Africa, sottolineati in particolare da «Jungla», «Rhumba Finale» e da una memorabile versione di «A Night In Tunisia». L’album «Afro» fu sicuramente il preambolo a «Gillespiana», l’opera orchestrale che avvicinerà maggiormente Gillespie all’Africa. In futuro il trombettista si sarebbe spinto oltre, tentando di catalizzare quasi tutti i moduli espressivi di matrice africana: nel 1961, con «An Electrifying Evening With The Dizzy Gillespie Quintet», si mosse sul filo del rasoio, avvicinandosi al jazz elettrico e sfiorando anche il volo libero; nel 1969, con «Soul & Salvation», proruppe con una slavina di soul-funky-be-bop, dove neppure James Brown, Marvin Gaye e Sly Stone messi insieme avrebbero potuto fare meglio; l’anno seguente, dopo aver rispolverato il suo nome di battesimo, John Birks, annunciò l’avvento degli anni ’70, trasformando il vecchio soul jazz in un tagliente funk metropolitano, dando alle stampe «The Real Thing» un disco visionario che anticipava i suoni della street culture ed il groove dell’hip-hop, soprattutto approdando al melting pot tra vari derivati dell’R&B molti anni prima di Miles Davis; nel 1975 con «Dizzy Gillespie No Brasil Com Trio Mocotó», trascinò tutti in un carnevale di suoni, inebriante, festaiolo e ricco di vitalità; a distanza di un anno, con «Bahiana», Dizzy avrebbe impressionato critica e pubblico, rendendo ancora omaggio alla musica brasiliana; del resto, come già raccontato, era stato il primo ad introdurre la componente afro-caraibico-cuban-brasiliana nel jazz moderno, unendo i due grandi emisferi della musica mondiale; sempre nel 1975, al Montreux Jazz Festival, turbò le placide notti svizzere con una formazione stellare, che profuse una miscela di post-bop, quasi a schema libero, da cui venne tratto l’album «The Dizzy Gillespie Big 7»; nel 1977 si spinse ancora più avanti con «Free Ride» realizzato per l’etichetta Pablo e con la stretta collaborazione del compositore ed arrangiatore Lalo Schifrin, l’unico musicista argentino, insieme a Gato Barbieri, ad avere avuto accesso ai grandi consessi del jazz afro-americano.
Il sodalizio con Lalo era stato già testato egregiamente nel 1960 con l’album «Gillespiana», che aveva ricevuto immediatamente la valutazione di «5 Stelle» da parte dei critici della rivista Down Beat. Trattasi di un’ambiziosa suite per orchestra jazz, la cui musica venne composta dall’allora ventottenne argentino. Il progetto si basa su cinque movimenti e divenne una vetrina africanista per Gillespie, supportato dai membri del suo quintetto: Leo Wright, Lalo Schifrin, Art Davis e Chuck Lampkin, accompagnati da una corposa big band ricca di nomi già apprezzati nelle orchestre di Count Basie o Duke Ellington, oltre che dagli inevitabili percussionisti della sezione afro-cubana. L’ensemble sviluppò una musica estremamente coinvolgente e sostenuta con una varietà di tempi e ritmi da manuale, mentre le parti più morbide sembrano frammenti dal sapore cinematografico; non è bop standard o vecchio jazz orchestrale, ma una specie di bop-cool, arricchito da un’ottima progressione ritmica e da un crescendo melodico al limite del sinfonico. A differenza di «Perceptions» del 1961 che appare come una terza via quasi sfiorata, qui si va oltre: in «Gillespiana» si tenta la via di fuga dal luogo comune con un Gillespie in una dimensione davvero inedita; dall’apertura con «Prelude» fino alla conclusiva «Toccata», passando per «Blues», «Panamericana» e «Africana», il suo impegno per il progetto è totale. «Gillespiana», registrato nel novembre del 1960, viene unanimemente considerato il miglior album di Dizzy Gillespie sotto la supervisione di Norman Granz. Il merito di tale operazione andrebbe, in parte, condiviso con il musicista argentino che ha scritto ed arrangiato tutti pezzi. Si potrebbe dire che, in tale circostanza, Lalo Schifrin stia a Dizzy Gillespie come Gil Evans a Miles Davis in occasione di «Sketches Of Spain». Ottima l’idea di Schifrin di mantenere il quintetto regolare del trombettista, stimolato da una fiammante e dinamica sezione fiati composta da dodici ottoni e da un ardente trittico di percussionisti latini.

