Marco Pacassoni Trio – «Life», 2022

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nella storia del jazz il vibrafono, pur vantando alcune eccellenze tra gli utilizzatori, è uno strumento che non sempre riesce a trovare l’unanime consenso fra tutti cultori del jazz, non possedendo l’immediatezza, ad esempio, degli strumenti a fiato. Come tutti i metallofoni il vibrafono ha necessità di muoversi in una dimensione spazio-temporale che talvolta appare sospesa e dove tutti gli elementi agiscono per sottrazione puntando essenzialità: il vibrafono non corre, ma cammina, non agisce d’istinto ma pensa, evitando accuratamente la ridondanza declamatoria.

«Life» del Marco Pacassoni Trio è un concept per vibrafono, che si sviluppa come un racconto che offre una doppia lettura: in primis bisogna partire dall’analisi di un costrutto elegante e tecnicamente impeccabile dove il vibrafonista di Fano e i due ospiti di riguardo si muovono in maniera mercuriale su carta millimetrata; in seconda istanza dall’articolato malleting di Pacassoni che s’insinua tra le linee eterodirette, ora semplici e ora complesse, del parenchima sonoro. Marco Pacassoni realizza così il suo sogno nel cassetto, ossia registrare un album in USA con due accreditate firme del panorama jazz e fusion: il bassista John Patitucci ed il batterista Antonio Sanchez, ai quali il musicista marchigiano si è approcciato con il rispetto e la consapevolezza di doversi misurare in una partita difficile, ma inter pares, senza complessi d’inferiorità e con la determinazione di chi ambisce a realizzare qualcosa di importante. Dalla retroguardia, il duo ritmico Patitucci-Sanchez, si muove infatti con discrezione e passo misurato fra la scarne melodie a maglie larghe che il metallofono di Pacassoni sviluppa progressivamente, senza debordare mai o tentare, sia pure inavvertitamente, di mettere all’angolo il giovane anfitrione che li ospita. «Lo hanno fatto – racconta Pacassoni – con una delicatezza ed un rispetto per le mie composizioni che solo i grandi musicisti possono avere. Nel creare insieme, perché aldilà delle partiture è quello che abbiamo fatto, ci siamo divertiti, abbiamo giocato e suonato; ed è questa la sintesi perfetta del doppio significato in alcune lingue del verbo suonare».

Il disco si sostanzia attraverso dieci componimenti tutti ad opera del titolare del progetto tranne un paio, nei quali condivide al firma con Patitucci e Sanchez. Quello del vibrafono non l’unico suono che si sente. Già a partire dall’opener, «Time Vibes», la retroguardia colma gli spazi, delimita il perimetro melodico-armonico ed offre stimoli costanti all’inventiva di Pacassoni, mentre il vibrafono risuona e rintocca deliziosamente prima di essere raggiunto dagli altri strumenti che, coscienziosamente, entrano nell’agone in modo graduale, agevolando l’impianto del brano. Non ci sono fanfare o impennate, scattose rullate di batteria o nevrotici walking di basso. Forse è solo una sensazione di chi scrive, ma nella parte introduttiva il tema, così come nell’assolo di batteria con il contrappunto del basso, c’è un richiamo all’aria di «Walk On A Wild Side» di Lou Reed. (Sarà stata l’atmosfera della Grande Mela). La title-track, «Life», si annuncia attraverso un’essenziale linea melodica di marimba, l’altro strumento suonato da Pacassoni, prima di cedere la staffetta al vibrafono: tale scambio si ripete più volte, esprimendo perfino una qualità spirituale percepibile e foriera di un aspetto devozionale, dove un’aura quasi gospel ne ammanta la circolarità «balladica» finemente intrecciata, mentre il basso elettrico di Patitucci si muove in punta di piedi e con la liricità di una chitarra.

«Marimbass» è quasi un battibecco dal sapore latino tra il contrabbasso di Patitucci e la marimba di Pacassoni; man mano che la musica procede, ondeggia e fluttua ritmicamente, aumenta il tempo, ma non l’urgenza. «Valse à Trois» è un tempo multiplo sull’idea di un jazz-waltz strutturato e destrutturato dalla batteria. I tre strumenti non sono mai in conflitto. È come se un raggio di sole avesse squarciato il cielo newyorkese per illuminarli, mentre cercano un terreno comune e comunicano tra loro in modo costruttivo, ma sempre intrigante ed non convenzionale. «Un Lento Bolero» viene introdotto ed alimentato da un basso brunito e crepuscolare, mentre marimba e batteria, quasi in bilico, diventano complici di quella che sembra una camera di decompressione. Con «Italian Creativity» si passa ad costrutto più complesso. Partendo da un chiaro scuro, il trio ritrova la lucentezza metallica con un’efficace improvvisazione da parte del band-leader, ricca di impatto emotivo. Quando gli strumenti si uniscono, si avverte un senso di mistero e di intrigo, con il vibrafono che porta idealmente un un pizzico di Morricone. «Anita» è un efficace melodia, velata di malinconia e locupletata dal contrappunto dell’archetto di Patitucci; forse il componimento più romantico dell’album, giocato su lievi cromatismi. Tutto rallenta con garbo gemendo magnificamente ed emotivamente; perfino il basso procede in maniera leggiadra come una ballerina sulle punte. «Train Trip», componimento lunatico ed anticonformista, entra in scena a colpi di marimba, per poi lasciare spazio ad un intrecciato scambio tra basso e marimba, vibrafono e basso, dove la musica diventa un gomitolo di lana, con Sanchez che funge da ago cucendo tutto insieme. I due pezzi conclusivi, «Conversation #1» e «Conversation #2», si sostanziano come improvvisazioni a schema libero che gratificano il gioco di squadra, liberando i sodali dagli oneri di partitura, ma senza mai debordare nella dissonanza o tentare fughe impossibili.

Ogni singolo brano di «Life», registrato il 10 e l’11 gennaio 2022 al The Bunker Studio di New York, è ben incastrato nel concept complessivo, frutto di tre musicisti dotati di talento individuale, dove l’insieme è superiore alla somma delle parti, quale risultante di una combinazione di creatività, generosità ed abilità nel far fluire la musica collettivamente.

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