Jackie McLean – «Bluesnik», 1962

// di Francesco Cataldo Verrina //

Da più parti si è sempre sostenuto che «Bluesnik» fosse l’album più fruibile ed accessibile di Jackie McLean, e, per certi versi, anche il più vicino allo standard operativo della Blue Note. Per paradosso colui che trae godimento da un album del genere, potrebbe trovarsi di fronte a qualche dilemma: seguire le tracce del nuovo percorso intrapreso dal contraltista, o andare a ritroso come un gambero alla ricerca dei suoi esordi e della sua fase di affermazione divisa tra parkerismo ed hard bop? Intercettare la nuova missione dell’inquieto McLean proiettata verso un altrove, o ricollegarsi ai filamenti di DNA della sua primigenia espressione?

Ci troviamo in presenza dell’album meno trasversale del sassofonista, il quale aveva già marcato territori assai più impervi: sembrerebbe un pentimento sulla via di Damasco, ma in realtà è solo un tributo al vecchio, caro ed amato blues. In buona sostanza simboleggia perfettamente tutta l’intensità, la passione, il fervore creativo ed anche l’urgenza che quella New York degli anni ’60 imponeva: un insieme di necessità materiali da contemplare, di istinto di sopravvivenza, di aderenza al mercato, ma anche di perenne desiderio di innovazione e di cambiamento. L’album è imperniato su una massiccia ossatura blues, ma la tensione è tale che tutto il line-up scalpita ed arde dal desiderio, nonché dalla necessità di uscire dalla camicia di forza delle 12 battute. Il suono del sax alto è sempre acuto e penetrante, mentre McLean cerca ripetutamente la dissonanza e lo scostamento del centro tonale, quasi a voler annunciare che qualcosa di nuovo sarebbe presto accaduto o che l’imprevisto avrebbe potuto essere dietro l’angolo.

Al primo impatto «Bluesnik» appare come una sosta del viaggio dell’altoista verso il cosiddetto «outer central», una sorta di encomio ad un rassicurante swing-bop-blues, prima di avventurarsi all’esterno. Presto però si ha la sensazione che McLean e soci si stiano spingendo oltre i confini delle forme più arcaiche del jazz convenzionale: gli sfarzosi e adamantini toni della tromba di Freddie Hubbard compensano il contralto acuto e lamentoso del band-leader che sembra provenire dalle viscere della terra, mentre Kenny Drew, sciamano del pianoforte all’apice dei suoi poteri, guida armonicamente il convoglio, sostenuto dal passo sicuro e marcato di Pete LaRoca alla batteria e Doug Watkins al basso. Gli eccellenti sodali consentono a Jackie McLean di essere alquanto esplorativo in quello che viene considerato il più convenzionale degli album tra quelli contenuti nella lunga striscia rilasciata in casa Lion tra il 1959 ed 1967, l’unico registrato nel 1961: non è un battuta d’arresto ma forse solo una messa a fuoco basata, comunque, su sei componimenti originali piuttosto che su un esercizio di stile fatto di standard e cover.

Attraverso forme e moduli espressivi diversificati i singoli musicisti fanno riferimento all’idioma blues ma reinventandolo in modo creativo e con inediti cromatismi. McLean si affida al suono tagliente per accentuare il suo tratto distintivo, dal canto loro Hubbard e Drew compensano aggiungendo sonorità più cristalline e «brillantanti», mentre la retroguardia ritmica risponde ordinatamente ai solisti in maniera appropriata e mai eccessiva. Le melodie. volutamente semplici, sembrano attingere alla tradizione mentre si addensano costantemente intorno ad elementi di modernità. La title-track, «Bluesnik», è imperniata su un up-tempo nel quale una frase melodica viene ripetuta incessantemente ed interrotta solo dal bridge, seguito dall’assolo del band-leader che ne intensifica la tensione; Hubbard coglie il suggerimento coinvolgendo l’intera sezione ritmica, mentre l’arrivo di Drew mette in luce una notevole creatività ed un rara ingegnosità armonica; l’assolo è profondo e complesso nella sua costruzione, ma accessibile e facile da metabolizzare.

I Tre i solisti dispiegati sul front-line fanno riferimento ai modelli classici, ma vanno oltre elevando il proprio score inventivo. «Goin’ Way Blues» gioca su una rilassata forma blues in 6/8, mentre «Cool Green» si stende su un lento swing più ancorato al passato; «Drew’s Blues», caratterizzata da una ripetitiva dichiarazione melodica, trova il suo baricentro espressivo nella sincope dei due fiati quasi in contrasto con il groove della sezione ritmica, magnificamente rappresentata da Doug Watkins al basso e Pete La Roca alla batteria. «Blues Function» e «Torchin’» hanno uno schema ed un fraseggio molto simile, basato essenzialmente sulla melodia, per contro «Torchin’» si distingue per la complessità di alcuni assoli, specie quello di Drew al piano in cui il procedimento melodico risulta più avanzato ed abbellito da fantasiosi cromatismi ritmico-armonici. Nonostante si tenda ad osannare il superbo modo di suonare sia di McLean che di Hubbard, è proprio il pianista/compositore Kenny Drew, grazie all’intesa con Pete LaRoca, ad aggiungere dei contrafforti stabilizzanti all’album e ad metterlo in sicurezza attraverso una serie di passaggi molto soulful e ricchi di suggestioni, insinuandosi proprio tra i due fiati, ai quali riesce a fare, contemporaneamente, da spartiacque e da collante.

Registrato Van Gelder Studio l’8 gennaio 1961 e pubblicato nel febbraio del 1962, «Bluesnik» è un album per forma mentis più tradizionale, che non lascia indifferenti, però, neppure quanti stavano apprezzando le linee evolutive di Jackie McLean e le progressioni a trazione anteriore, accennate in alcuni album precedenti.