ROBERT STEWART – «NAT THE CAT», 2000

// di Francesco Cataldo Verrina //

A Parte la metafora dantesca, ossia l’improvviso ritiro dalle scene, vale la pena ricordare, questo valente sassofonista, rimasto impresso, forse nella memoria di pochi appassionati, ma di certo in maniera indelebile. Si pensi ad una «blind audiotion», dove improvvisamente venga diffusa la musica contenuta in «Nat The Cat», molti sarebbero portati a pensare che questo valido ed accorato tributo alla musica di Nat King Cole possa provenire da un vecchio disco realizzato da un quartetto guidato da Ben Webster, per poi scoprire, con immensa meraviglia, che l’artefice sia un sassofonista di Oakland, per lo più sconosciuto alle masse, tale Robert Stewart, il quale, cresciuto alla corte i Wynton Marsalis nella prestigiosa Lincoln Center Orchestra, aveva iniziato a suonare lo strumento abbastanza tardi, intorno ai 17 anni, ma poiché dotato di un spiccato talento naturale, riuscì a recuperare rapidamente il tempo perduto. Di lui Billy Higgins disse: «Forse, uno dei più importanti giovani musicisti emersi nelle ultime decadi».

Al primo impatto, i punti di riferimento di Stewart sembrano essere due giganti del sassofono tenore come Ben Webster e Coleman Hawkins, due perfetti maestri di cerimonia, quando si trattava di far vibrare le corde dei sentimenti e sussurrare al mondo note di zucchero e miele. Robert Stewart possiede lo stesso vibrato perforante di Webster e Hawkins, nonché la medesima predisposizione alle ballate dal passo felpato. Il sound di Stewart è una pozione magica, un jazz dal sapore vagamente retrò con profonde radici nel blues e nel soul. A parte i due colossi già citati, a detta del nostro sassofonista, il musicista da cui avrebbe subito la maggiore influenza e tratto maggiore linfa ispirativa sarebbe Gene Ammons.

Lungi dall’essere un clone di un’eminenza grigia del passato, Robert Stewart rappresenta una personalissima espressione degli stilemi classici del tenorismo jazz, ma connessi ad un contesto sonoro più moderno e legati al suo presente; nello stile, nel fraseggio, nel suono, nell’impostazione ritmica, si avvertono sibilanti echi di musica modale e di tutto quell’universo musicale filtrato attraverso l’esperienza di Sonny Rollins, John Coltrane, fino a Joe Henderson. Nel suo stile c’è classe da vendere, il suo sax possiede la stessa intensità emotiva della voce di un crooner, sempre avvolgente e rotondo, mentre quella vocalità, quasi ammaliante e rapinosa, sembrerebbe dire: «tender is the night». Tutte le melodie sembrano familiari e vicine, anche a quanti non hanno dimestichezza con i dischi di Cole. È quasi un incantesimo sonoro. Stewart ebbe modo di dichiarare: «Tutto questo album è dedicato con commozione alla memoria del grande Nat King Cole. Possano il suo spirito e la sua musica vivere in eterno». Il risultato è pienamente soddisfacente, tutti i brani dell’album calano sull’ascoltatore ingabbiandolo in una tentacolare spirale di emozioni a presa rapida, mentre la sezione ritmica con il pianista Ed Kelly, il bassista Mark Williams e il batterista Sly Randolph sono un abbinamento perfetto che rende ancora più gustoso il lauto banchetto sonoro. Kevin Stewart e Robert Stewart III appaiono al pianoforte e al flauto su un paio di brani. Tutti i musicisti sono piacevolmente immersi nel sacro humus della tradizione mainstream, al punto che diventa assai difficile, per l’ascoltatore medio, identificare i temi storici dalle nuove composizioni come la flessuosa «Harlem After Midnight», composta da band-leader, nella quale le ombre notturne newyorkesi, fitte di misteri, fanno da sfondo a brevi fraseggi rapidi, fatti di note laceranti che illuminano il cammino improvvisativo, come lampi di luce soffusa. Commoventi le versioni di «Blue Gardenia», «The Ruby And The Pearl», dove il sax spalma sulle orecchie degli ascoltatori miele mille millefiori. Parliamo di un musicista anomalo, se confrontato con le tendenze a di quegli anni.

«Nat The Cat», arrivato dopo un altro eccellente album di ballads «Beautiful Love», sempre per la Red Records di Sergio Veschi, è un ulteriore omaggio ad un poeta del romanticismo jazz: Nat King Cole. Registrato al Kenneth Nash Studio ad Okland in California, “Nat the Cat” è un album impeccabile e basato su un compendio di vera essenza musicale, che pur non discostandosi dal tradizionale stampo swing-bop, emana una brillantezza ed un’originalità non comune. Al pari dei sui predecessori, Robert Stewart predilige atmosfere morbide, carezzevoli e rifinite al millesimo, spesso arricchite e stemperate da repentini cambi di tempo. Pur nel suo «amarcord», Stewart non è mai banale e prevedibile o una mera ripetizione di standard; per un certo periodo è stato uno dei miglior balladeur in circolazione sulla scena mondiale, alfiere moderno della nobile stirpe di quei musicisti che crearono e diffusero il verbo jazzistico a cavallo tra gli anni ’40 e ’50. Perché poi sia scomparso dalle scene jazz, per dedicarsi ad altro, forse di più sicuro e remunerativo, rimane un enigma avvolto in un mistero.