// di Francesco Cataldo Verrina //
Ho avuto diversi «incontri telefonici» con Sergio Veschi, in cui mi ha raccontato parzialmente la storia della Red Records, l’etichetta discografica italiana jazz oriented che, nel corso di quasi cinquant’anni, ha saputo mantenere costantemente vivo il rapporto con la qualità artistica e tecnica dei prodotti da immettere sul mercato. La Red Records nasce dalla collaborazione tra Sergio Veschi e Alberto Alberti ed in maniera del tutto casuale e precipitosa, senza uno schema ben preciso, usando la tecnica dell’improvvisazione jazz. Quando Sergio fa riferimento al movimento, parla del Movimento Studentesco Milanese, di cui faceva parte e all’interno del quale era stato già promotore di diverse iniziative.
D. Non esiste una scuola per diventare produttori discografici di successo, soprattutto, non è che uno si sveglia una mattina e s’improvvisa ?
R. Io lo sono diventato casualmente, grazie ad un incontro con Alberto Alberti. È stato lui a trascinarmi in questa avventura. Avrei potuto sottrarmi con il senno di poi, forse sarebbe stato meglio, ma non l’ho fatto. Ad Umbria Jazz, nel ’74, ’75, non ricordo, conosco Alberto Alberti, il quale un giorno mi propose di registrare il gruppo di Sam Rivers. Lo registrammo e dopo sei mesi decidemmo di fondare un’etichetta, collaterale alle iniziative culturali del movimento, ma di fatto formalmente indipendente. La Red Records nacque in maniera istintiva, senza una precisa pianificazione, come si fa nel jazz, improvvisando!”
D. Come, dove e quando è avvenuto il primo l’approccio con il jazz dal parte del piccolo Sergio Veschi?
R. A tredici, quattordici anni, a casa di un professore che mi dava ripetizioni di francese. Ascoltava Clifford Brown e Sidney Bechet, è li che ho scoperto il jazz che da allora è diventato la musica della mia vita. In seguito, Alberto Alberti, assieme a Giancarlo Barigozzi e Sergio Rigon, per motivi diversi sono le persone che hanno contribuito più di chiunque altro a formare e definire la mia conoscenza del jazz nei suoi vari aspetti. Alberto era un manager e un operatore culturale di altissimo livello; Giancarlo un sassofonista largamente sottovalutato, mentre Sergio ha avuto la pazienza di insegnarmi il jazz dal punto di vista strumentale, perché è stato il mio insegnante di sassofono. Tuttavia di Alberto Alberti, non posso parlarne che bene. Perché molte delle cose per le quali la Red Records è apprezzata dal jazz fan, sono state realizzate con il suo contributo fondamentale. Senza di lui le registrazioni con Sam Rivers, Phil Woods, Cedar Walton, Sphere (Kenny Barron, Charlie Rouse, Buster Williams e Ben Riley; ndr) e altri di questo orientamento, non sarebbero state possibili. C’è anche da dire che fra me e Alberto c’era anche un po’ di competizione, nel senso che le cose che realizzavo autonomamente, come i dischi di Bobby Watson e altri, da lui non erano molto bene accette
D. Mi racconti la genesi del primo album che hai pubblicato?
R. I miei primi dischi sono stati registrati nell’ambito della politica culturale che faceva il Movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. Furono le registrazioni di un Festival del Jazz italiano che organizzai, per conto del movimento, nell’aula magna dell’Università che ebbe un grande successo di pubblico. Da quel festival furono ricavati diversi concerti live di Gaslini, Schiano, Mazzon e una antologia in due volumi dal titolo Nuove Tendenze dal Jazz Italiano.
D. C’è un artista con cui avresti voluto registrare e portare avanti un progetto, ma qualcosa non l’ha reso possibile?
R. Nel 1982, forse, avremmo avuto la possibilità di registrare un set di Wynton Marsalis, quando era solo da alcuni mesi nel gruppo di Art Blakey assieme a Bobby Watson. Per una serie di ragioni, soprattutto di carattere economico, non fu possibile farlo.
D. La Red Records, pur muovendosi in linea di massima nell’ambito del mainstream, ha prodotto alcuni dischi con differenti difficoltà o facilità di metabolizzazione, a seconda che il fruitore sia un neofita o un consumato intenditore.
R. Ce n’è più d’uno. Per il neofita vanno bene, ad esempio, «Appointment in Milano» o il trio di Cedar Walton. Per i cultori più navigati, consiglio l’album di Markelian Kapedani o quello degli Sphere, e cioè Kenny Barron, Charlie Rouse, Buster Williams, Ben Riley.
D. Tra i musicisti che hai prodotto, ce n’è qualcuno che ha condizionato le tue scelte, magari lo hai fatto solo per esigenze di mercato.
R. Nessuno. Avendo cominciato ad ascoltare il Jazz alla fine degli anni ’50 i miei primi concerti sono stati quelli con John Coltrane, Sonny Rollins, Monk, Mingus (con Dolphy e Clifford Jordan e Jacky Byard), per proseguire con Lennie Tristano, il trio di Ornette Coleman, Duke Ellington, Coleman Hawkins, ecc… il jazz a cui mi riferivo è stato questo. Quindi, i vari Bobby Watson, Jerry Bergonzi, Joe Henderson, Phil Woods, Billy Higgins o Kenny Barron, mi sono subito apparsi come gli eredi e i continuatori, pur in modi e forme nuove, di questa grande tradizione. Se qualcuno non fosse d’accordo, come è probabile, dal mio punto di vista sbaglierebbero, perché della musica credo che esistano valori assoluti e mode.
D. Potresti quantificare il numero di produzioni che hai realizzato, soprattutto, devi dirne solo uno, quale dei «tuoi dischi» portereste con te in caso di fuga su un altra galassia?
R. Non ricordo il numero preciso, sicuramente più di 200, diversi dei quali sono nelle discografie selezionate di riferimento dei musicisti e altri fra i selected recordings della Penguin Guide of Jazz. Su un’altra galassia, per motivi sentimentali mi porterei «Appointment In Milano» di Bobby Watson con il trio di Bassini, Zanchi e Prina. Ma uno solo è troppo poco in ogni caso.
D. La Red Records è stata alquanto onnivora nella scelta degli artisti e degli stili da trattare. Non avete mai fissato una linea editoriale ben precisa?
R. Non avevamo un’idea specifica. Dopo il primo necessario periodo di apprendistato abbiamo capito che la qualità artistica prima e tecnica poi è l’elemento indispensabile perché la musica duri nel tempo. Non contano le mode ma la qualità intrinseca del prodotto indipendentemente dalla razza, nazionalità e cultura. Sulla base di questo principio abbiamo registrato dischi di ogni parte del mondo: Albania, Argentina, Brasile, Sud Africa, Italia, Francia, Germania, Stati Uniti con musicisti sia della East che West Coast. Lasciamo liberi i musicisti di esprimersi liberamente entro una cornice concordata ma a maglie larghe. Sulla base di questo principio non abbiamo avuto mai delle delusioni anche se ci sono, ovviamente, quelli più riusciti e quelli meno o quelli che ci piacciono di più di altri.
D. Quali sono i produttori discografici, italiani e stranieri, con cui ti sei sempre sentito più in sintonia?
R. I produttori delle etichette piccole e grandi che hanno fatto la storia del jazz a cominciare da Alfred Lion e Francis Wolf della mitica Blue Note a Lester Koenig della Contemporary e gli altri della Atlantic, Impulse, Prestige, Xanadu, etc. Fra i contemporanei il produttore della High Note/Savant, Criss-Cross, Sunnyside, Max Jazz.
D. Qual è il disco che ha dato maggiori soddisfazioni dal punto di vista economico?
R. Ce ne sono diversi: Chet Baker «At Capolinea», Bobby Watson «Love Remains» e «Appointment in Milano», i due album di Joe Henderson in trio. Questi dischi sono tutti sullo stesso livello di vendite più o meno. Fra gli italiani il CD di Piero Bassini «Nostalgia» che nonostante la scarsa popolarità piace molto agli ascoltatori.
D. Tu ad un certo punto hai fiutato che il vento del jazz stesse spirando verso altre latitudini e differenti direzioni che potremmo sintetizzare con l’espressione “Sud del mondo, quindi hai cambiato rotta.
R. Ecco, per “Sud del mondo” intendo una musica periferica, non prodotta nei luoghi canonici deputati. Per usare una metafora dedotta da Evaristo Carriego di Borges, che parlando del quartiere Palermo di Buenos Airres (abitato da immigrati siciliani), disse che “è nei luoghi dove la storia sembra essere assente che in realtà la storia si compie”. Analogamente, decidere di produrre musicisti sudamericani come Edward Simon, Ector “Costita” Bisignani, Norberto Minichillo, Luis Agudo, il grande chitarrista Pablo Bobrowicky, come pur il pianista albanese Markelian Kapedani, significa cogliere momenti artisticamente significativi per l’alto livello musicale. E questo avviene in luoghi, per l’appunto, periferici e insoliti. Il Jazz è dove lo trovi. A patto che lo si sappia riconoscere, perché viviamo in un’epoca in cui la globalizzazione non è solo economica, ma è anche culturale.
D. Consiglieresti mai ad un giovane di intraprendere l’attività di produttore discografico. Nel caso, quali accorgimenti dovrebbe osservare?
R. Oggi, direi di lasciar perdere. Ma se proprio lo vuole fare, di puntare sulla qualità tecnica e soprattutto artistica. Oggi si vedono sul mercato un eccesso di dischi assolutamente inutili. Questa inflazione di prodotti ha generato fra l’altro la diffidenza e relativa disaffezione del pubblico nei confronti degli stessi.
D. Come giudichi l’attuale situazione dell’industria discografica, la Red Records è tornata a produrre e ristampare anche in vinile?
R. Sembrerebbe che l’industria discografica sia stata rottamata dalle nuove tecnologie. Ma non è la fine della musica. Stiamo attraversando un periodo in cui un mondo finisce e ne inizia un altro, i cui contorni non sono ancora del tutto definibili. Molto si perde e molto si conquista, anche se non si sa bene cosa esso potrà essere. In ogni caso, più che me, riguarda le nuove generazioni, per le quali il web sembra essere più importanti.
Di recente, Sergio ha, come dire, abdicato a favore di Marco Pennisi, che si sta adoperando per la rinascita della celeberrima «rossa» attraverso una serie di iniziativa di cui vi abbiamo dato già contezza su queste pagine; soprattutto non mancheremo di tenervi informati sulle novità e sulle varie ristampe in vinile del rinomato catalogo dell’etichetta fondata da Sergio Veschi ed Alberto Alberti a metà degli anni Settanta.
