// di Guido Michelone //
Nel settembre 2022, con l’eleganza monocromatica di copertina e booklet nel colore del vino che dà il nome all’altrettanto famosa città francese (e viceversa), esce il CD e doppio vinile “Bordeaux Concert”, registrato dal vivo il 6 luglio 2016 nell’Auditorium dell’Opéra National, dunque tre giorni dopo l’esibizione a Budapest e dieci prima di quella di Monaco, entrambe già pubblicate, rispettivamente nel 2020 e nel 2019. I tre recital, peraltro assai diversi fra loro, avvengono circa un anno prima dell’ultima apparizione jarretttiana (Carnegie Hall di New York) e circa due per quanto riguarda il duplice ictus (febbraio e maggio 2018) che gli costa uno stato di seminfermità, da cui stenta ancora a riprendersi definitivamente, visto che al momento non riesce più a usare la mano destra sulla tastiera del pianoforte, oltre i problemi di memoria nel ricordare gli standard tante volte eseguiti in pubblico o come esercizio nella propria casa. Già all’inizio degli anni Zero, il ‘genio di Allentown’ si ferma per lungo tempo a causa di una rara esperienza denominata ‘sindrome da fatica cronica’, che gli interdice l’impegno a livello creativo e dunque sul piano artistico.
Tutto questo serve a ribadire che, fra una disgrazia e l’altra, questo album sembra psicologicamente raccogliere un velo di tristezza che di solito appare estranea a una poetica rivolta, forse in apparenza, a voler celebrare continuamente se stessa. Ma ci vorrebbero davvero le analisi nello stile di un Sigmund Freud o di uno Jeffrey E. Young per spiegare come gli schemi mentali di Jarrett si riflettano su un meccanismo astratto quali le note pentagrammate o estemporanee che non posseggono referenti concreti, aldilà di alcune simbologie incerte, che taluni critici vorrebbero ad ogni costo applicare ed espandere. Detto questo “Bordeaux Concert” ribadisce la formula vincente applicata dal pianista, in studio e dal vivo, sin dai tempi di “Facing You” attraverso le cosiddette ‘piano improvvisations’: è un flusso in interrotto – ma su questo disco spezzettato in XIII più o meno brevi segmenti – dove Keith si cerca, quasi con esercizi di riscaldamento, nel primo lungo brano, onde poi suonare le impressioni passionali che variano a seconda dell’illuminazione estemporanea, sempre comunque rifacendosi al proprio bagaglio musicale di reminiscenze classiche, blues, folk e soprattutto jazz, mediante un linguaggio che resta di fatto jazzistico e che, come tale, andrebbe da tutti recepito.
L’ipotetica continua autocelebrazione, di cui sono in molti a scrivere (e sottoscrivere), qui però diventa ricerca della comunicativa in quello che resta uno dei dischi-concerto più diretti, espliciti, persino facili in diversi punti, ponendosi a metà fra ‘l’euforia assicurata’ di Monaco e la ‘cordialità materica’ di Budapest. Senza lavorare sugli standard, come accade in quasi tutti in lavori in solo (magari nel bis finale), a Bordeaux Jarrett sembra riflettere sulla nostalgia, rimuginando perspicacemente sui topoi della propria immaginazione sonora: ed ecco la scioltezza quasi subitanea di una delle sue migliori intro (Part I), l’esame dell’ampiezza della propria inventiva (Part III), gli arpeggi trascinanti (Part IV), l’espansiva moderazione (Part VII), le marche funky-blues (Part VIII), il maestoso classicismo finale (Part XIII) a rendere quest’album tra i migliore nella lunga e ormai epilogante carriera di un grandissimo jazzman.
