// di Francesco Cataldo Verrina //
Charles Lloyd, oggi, ha 84 anni e rimane uno dei pochi testimoni viventi della grande epopea del jazz anni ’50 e ’60. Il suo percorso artistico è stato però frastagliato ed incostante, con alcuni rapidi cambi di stile e molteplici interruzioni. Classe 1938, nasce a Memphis, Tennessee, iniziando a suonare il sax a 9 anni; presto sarà a fianco di personaggi come Newborn Sr, B.B. King, Howlin Wolf, Johnnie Ace e altri. Dopo il trasferimento in California, nel 1956, per completare gli studi, suona nella big band di Gerald Wilson e forma la suo primo ensemble con Billy Higgins, Don Cherry, Bobby Hutcherson e Terry Trotter.
Charles Lloyd si porta dietro tutta l’aspra polvere del rock-blues della sua terra natia, una terra di confine abitata da anime musicali meticce e contaminate, dove i fenomeni di inculturazione sono storicamente favoriti. Tutto ciò si riflette da sempre nella sua produzione artistica a partire dal 1960, quando entra a far parte della band di Chico Hamilton allora orientata verso un “jazz da camera”. Designato direttore artistico del progetto dallo stesso Hamilton, Lloyd sposta subito l’asse della musica verso un post-bop ad elevato tasso di blues sudista. Nel 1964 lascia la band di Hamilton ed entra in quella di Cannonball Adderley, registrando contemporaneamente due album come leader insieme agli allora giovanissimi Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams.
Nel 1965, e sino al 1969, da vita ad un quartetto con il pianista Keith Jarrett, il bassista Cecil McBee (più tardi, Ron McClure) e il batterista, Jack DeJohnette. Anche nell’ambito di questa esperienza la pietanza sonora proposta dal quartetto segue il principio dei vasi comunicanti, attraverso una pregevole fusione fra straight-ahead, post-bop, free jazz e world music, catturando subito l’attenzione di appassionati di jazz e critici, ma al contempo ottiene un discreto successo fra i giovani fan del rock. Il successo non è tale da consentirli di mantenere un gruppo in pianta stabile. Così, nel 1970, dopo lo scioglimento del quartetto, Lloyd sparisce nel nulla, barcamenandosi come turnista. E’ possibile scorgere il suo sax in alcuni dischi dei Doors, dei Canned Heat, e dei Beach Boys.
Nel 1981, grazie all’interessamento di Michel Petrucciani, riprende a suonare per due anni, quindi sparisce nuovamente dai radar, rientrando di nuovo in scena grazie ad alcune registrazioni realizzate per la ECM. Da allora non si è più fermato ed ha continuato a registrare ed esibirsi nelle manifestazioni più importanti del mondo come Umbria jazz, sostenuto da band molto valide, ma spesso formate da musicisti provenienti dalle esperienze musicali più disparate. Con lui hanno suonato Brad Mehldau, John Abercrombie, Larry Grenadier e Billy Higgins e, dopo la scomparsa di quest’ultimo, il batterista Eric Harland che, con Jason Moran al piano e Reuben Rogers al contrabbasso, diedero vita al “new quartet” nel quale Charles Lloyd ha successivamente scritturato Gerald Clayton e Joe Sanders al posto di Moran e Rogers.
Il progetto di Charles Lloyd, presentato nel pomeriggio di giovedì 17 luglio 2019, al Teatro Morlacchi e denominato “Kindered Spirits”, con l’aggiunta di Marvin Sewell e Julian Lage, è molto poco (o meglio, è solo una parte) di quanto abbiamo citato. Il risultato nell’insieme, per quanto a tratti soporifero, risulta suggestivo e seducente, ma la presenza di due chitarre, spesso distorte e giocate su un eccesso di virtuosismo solipsista, l’assenza di un piano e l’uso del basso elettrico snaturano il gusto estetico, la sostanza musicale ed senso di collegialità tipico del jazz. Ma di jazz vero ce n’era poco, in parte lasciato a casa o in albergo.
Tutto lo scibile sonoro sfoderato è stato a vantaggio di un rock-blues elettrificato, languido e calante, a volte dal passo pesante, con tempi eccessivamente dilatati e assoli inutili, solo a tratti mitigati dagli inserti di sassofono del “vecchio” protagonista, il quale sembrava però disegnare dei quadretti a sé stanti, tranne in qualche rara occasione. Forse a Charles Lloyd, avendo fatto tutto, si può e si deve davvero perdonare di tutto? Complessivamente sì! Del resto, sullo stage del Teatro Morlacchi di Perugia, ieri, c’era un pezzettino di storia del jazz, anche se la polvere del vecchio blues del Tennessee si è depositata oltremodo sulle poltroncine della platea, sui palchetti e sul loggione.
EXTRA LARGE
Charles Lloyd – “Of Couse, Of Course”, 1965
Charles Lloyd, musicista eclettico e geniale, ha avuto una carriera alquanto frastagliata, il suo modo di agire in ambito jazz è sempre stato mirato all’innovazione con uno sguardo costantemente proteso verso le avanguardie, fino a giungere a momenti del tutto avulsi rispetto all’ortodossia jazz. In alcuni momenti della sua carriera, particolarmente negli anni ’70, la fusion estrema prese il sopravvento, fino a condurlo, quasi con senso di sfida, al rock. Uno dei suoi crucci mentali era stato sempre quello di poter avvicinare al jazz il grande pubblico dei concerti rock, o comunque fare in modo che i due elementi potessero agire nel medesimo contesto. In quegli anni i suoi punti di riferimento avrebbero potuto essere più Jimi Hendryx e Frank Zappa che non John Coltrane ed Ornette Coleman, a quali paga un forte pedaggio a livello ispirativo nei primi anni delle sua attività. Dopo un periodo di totale latitanza dalla “chiesa madre”, Lioyd è tornato, ed ancora vivente, opera insieme a giovani musicisti nell’ambito di un jazz che guarda al passato, ma sempre attento alle nuove istanze, collocandosi ancora una volta in una dimensione non convenzionale, rispetto a quello che potremmo considerare jazz mainstream. Ad abundantiam, basta cercare ed ascoltare le sue ultime o più recenti produzioni.
Quando Charles Lloyd pubblicò “Of Course, Of Course”, faceva ancora parte del gruppo di Cannonball Adderley, anche se la tempra di leader-band cominciava a manifestarsi con ostentata decisione. In verità, questo fu il secondo album come titolare di Charles Lloyd e lo vede in stretto sodalizio con il chitarrista Gabor Szabo (suo vecchio compagno nel gruppo di Chico Hamilton), il bassista Ron Carter e il batterista Tony Williams. Il suo modo di suonare sul set e di gestire la situazione dimostrarono che fosse già destinato ad una lunga carriera come leader. Sette delle nove composizioni presenti nell’album sono sue.
L’album fu pubblicato del novembre del 1965 e registrato durante tre differenti sessioni: l’8 maggio del 1964, l’8 marzo del 1965 e 15 ottobre del 1965. Lloyd suona il flauto ed il sax tenore conferendo all’album un sapore ed un taglio particolare, a cui si aggiunge il suono della chitarra di Gabor che rende alcuni momenti quasi sospesi e surreali come “The Things We Did Last Summer” dove l’alternanza e lo scambio fra i due è davvero da manuale, diversamente a quanto accade in “Apex”, eseguita in trio senza il chitarrista, ma con un taglio che riflette l’influenza di Ornette Coleman. Al contrario tutte le altre interpretazioni di Lloyd al sax tenore risultano all’ombra di Coltrane. Certamente la raffica di note e la decostruzione degli accordi in stile Coltrane è evidente in alcuni punti dell’album, ma in “Apex” il tentativo di allungare al massimo il gioco melodico rimanda inequivocabilmente a Ornette Coleman, splendido anche l’assolo, breve ma efficace di Carter. Altre tracce degne di nota sono “Goin’ to Memphis” e “Things We Did Last Summer” di Sammy Kahn, dove il sassofonista cita direttamente la melodia di “Free at 3:00 of …” di Coleman. Altri tagli che spiccano per originalità sono la title-track e “One for Joan”, in cui il gemellaggio e il contrappunto tra Szabo e Lloyd sono quasi sincroni. Sia al tenore che al flauto, “Of Course Of Course” impose Lloyd come voce originale nel panorama jazz di quegli anni, certamente non convenzionale; a torto questo set, per molti sconosciuto e da alcuni sottovalutato, viene considerato un classico minore.
