Billy Childs – Acceptance, 2020

Billy Childs è un musicista che tende geneticamente all’ibridazione, figlio di una generazione che ha fatto delle mescolanza una sorta di cibo liofilizzato per la sopravvivenza di un jazz eterologo e multidirezionale, che ama da sempre le costruzioni sonore multistrato. Cresciuto a Los Angeles, Childs già ai tempi del college, dove studiava composizione, nel 1975 fece il suo debutto come professionista nel J.J. Johnson Quintet; da qui un periodo di sei anni, tra il 1978 e il 1984, al seguito Freddie Hubbard, fino al 1985 quando partirà la sua avventura da band-leder come pianista e compositore, con dieci dischi da solista e numerosi riconoscimenti. Childs è cresciuto in una famiglia amante della musica a 360 gradi; oltre alla prodigiosa collezione di dischi dei suoi genitori, ricca di jazz, blues, classica e brasiliani, la sorella maggiore, la drammaturga Kirsten J. Childs, aveva introdotto in casa anche il pop ed il soul. Queste influenze familiari sono sondabili nella profondità e nella varietà delle composizioni di Childs.

Con il precedente “Rebirth” del 2017 l’estroso pianista ha perfino vinto un Grammy, grazie alla presenza del sassofonista Steve Wilson, il bassista Hans Glawischnig ed il batterista Eric Harland, i quali, insieme a lui, costituiscono il quartetto base che garantisce l’ossatura del nuovo album “Acceptance” uscito nell’ottobre del 2020. Ciononostante le coordinate sonore non seguono quelle del predecessore . Il tracciato sonoro risulta più esotico e complesso nell’esplorazione: sia va dal jazz da camera al post-bop, dalla fusion al samba in un intreccio di ballate dai toni drammatici, voci appassionate e pop sofisticato. Tra gli ospiti figurano i vocalist Alicia Olatuja, Sara Gazarek e Aubrey Johnson, i percussionisti Rogerio Boccato e Munyungo Jackson e la flautista Elena Pinderhughes. L’esecuzione del leader è di gran lunga l’aspetto più importante di un album zebrato che include di tutto; da una versione in duo piano/basso dello standard “It Never Entered My Mind” alle escursioni latine come “Dori”, dedicato al cantautore brasiliano Dori Cayymi.

Childs dice: Questo è anche il mio suono, perché è quello che facevo negli anni ’70. Il Rhodes che sto suonando adesso è quello degli anni ’70”. Dopo un intro di pianoforte nodoso e contrappuntistico in stile Scarlatti, dove Childs fa uso poliritmi sotto la una complessa melodia, fino all’arrivo di una corale senza parole che aggiunge incisività agli accordi, mentre i percussionisti ed il batterista Harland sviluppano una sorprendente l’interazione ritmica; l’assolo di flauto di Pinderhughes, quasi svolazzante , si alza e si abbassa alternativamente, incorniciato dal piano e dalla retroguardia ritmica. La traccia più avvincente è certamente “Do You Know My Name?” che, ispirata al tema del traffico di esseri umani, è l’unico pezzo con testi nato dalla collaborazione con Alicia Olatuja. Ispirato ad una performance del Pat Metheny Group del 1989, in particolare dal tastierista Lyle Mays, la rielaborazione di “Twilight Is Upon Us” usa le voci come uno strumento, merito di Aubrey Johnson nipote di Mays.

Il pianista ci tiene a precisare; “Le armonie e la melodia non sono necessariamente influenzate da Pat Metheny. E’ più che altro un riferimento strutturale, ma armonicamente Monty Alexander e l’album “Apocalypse” della Mahavishnu Orchestra sono stato delle vere influenza”. La title-track parte come una struggente ballata che riecheggia talune melodie popolari. “Leimert Park”, firmata da Childs, dal bassista Paul Jackson e dal batterista Mike Clark è una jam-fusion imperniata su schegge synth e vampate di piano Rhodes con cadenze ritmiche che sfiorano i Weather Report per giungere al funk da discoteca e all’hip-hop. In chiusura c’è da segnalare “Oceana” una riuscita improvvisazione di gruppo, dove il sax di Wilson sembra evocare i canti delle delle balene ed i vocalizzi dello jodel, mentre la band si fonde a caldo secernendo stille di blues e lanciando bordate hard-bop. “Acceptance” è un album che si muove tra dotte reminiscenze ed istinto compositivo, inteso come un gioco fatto di costruzioni intercambiabili ed comunicazione intima tra i vari collaboratori, i quali mostrano perfino un lato divertito e spensierato, proprio come in un gioco di ruolo dove dominano avventura ed imprevedibilità.