// di Francesco Cataldo Verrina //
Preso da una forma di masochismo senile, e forse memore di vecchi ardori giovanili, metto sul giradischi il quinto album degli Yes, il secondo ed ultimo capitolo discografico per quella che, ancora oggi, è considerata all’unanimità la loro formazione più prestigiosa, con Jon Anderson alla voce, Chris Squire al basso, Bill Bruford alla batteria, Steve Howe alle chitarre e Rick Wakeman alle tastiere.
L’opera è il culmine di un crescendo continuo, partito nel 1970 con l’arrivo di Howe, talento capace di dare vita a uno stile omogeneo benché costituito da variegati e complessi elementi sonori. L’anno successivo al line-up si aggiunge Wakeman che, con il suo vasto armamentario di tastiere elettroniche, è foriero di un sopraffino e proteiforme stile neoclassico, fatto di reminiscenze colte e non molto diffuse in un contesto rock. “Close To The Edge”, a mio avviso, resta il capolavoro degli Yes ad imperitura memoria. Con esso nasce la formula perfetta del rock progressivo, sostanziando un rarissimo caso di album-concept senza una nota scomposta, un istante di zavorra virtuosistica, o un’indecisione creativa: nei suoi solchi sparisce il confine fra spontaneità ed artificio tecnico, fra impeto passionale e tenerezza, tra freddo materialismo ed impalpabile misticismo, tra post-beat e neo-barocchismo. L’incastro delle progressioni armoniche è tale che le dissonanze degli strumenti elettrici appaiono delicate e, al contrario, gli arpeggi acustici volano alti al pari di moderne rapsodie.
I testi sono influenzati dai temi mistici, epici e religiosi introdotti dal cantante Jon Anderson, argomenti che, in seguito, sarebbero diventati centrali nel concept album “Topographic Oceans”. Secondo il sito ufficiale degli Yes, la title-track dell’album sarebbe ispirata dal romanzo “Siddharta” di Hermann Hesse e descriverebbe il “risveglio” spirituale del protagonista del racconto sulla riva di un fiume (che rappresenta simbolicamente le vite del suo spirito). In questa come in altre opere dell’epoca, tuttavia, le liriche di Anderson sono quasi impenetrabili, per cui è difficile ricostruire un nesso chiaro fra il contenuto testuale della canzone ed il plot dello scritto di Hesse. Altri studiosi ritengono che il suddetto testo fosse ispirato, almeno in parte, ai libri di Carlos Castaneda.
Splendida la copertina ad opera di Roger Dean, un disegnatore-artista molto astrale, onirico ed immaginifico. L’art -work appare elegante ed essenziale, sormontata nella parte apicale dal sinuoso logo degli Yes che, in tale circostanza, fa la sua prima fantasiosa apparizione pubblica all’interno di un paesaggio asteroidale ed acquatico, fluttuante ed irreale. “Close to the Edge” si sostanzia come una delle pietre miliari prog-rock, di certo uno dei dischi più belli mai concepiti da una rock-band inglese del secolo scorso, a prescindere dalle divisioni di stile e di genere. Pubblicato nel 1972 per la blasonata Atlantic Records, l’album, ancora oggi a 50 anni dalla sua uscita, lascia subito il segno nel cuore e nella mente di chi apprezza o ha apprezzato questo tipologia di concept sonoro.

Le cose si complicano invece, volendo analizzare “Tales From Topographic Oceans”. Opera controversa che divide su due schiere, gli uni contro gli altri armati, i cultori degli Yes che lo considerano un altro capolavoro, ma spesso fa la felicità dei loro detrattori, o dei puristi del prog , i quali lo considerano un disco tedioso e pesante. Anderson spiega nelle note di copertina che l’idea dei quattro movimenti o suite, in cui è strutturato il disco, prende corpo dopo la lettura del libro “Autobiografia di uno Yogi” di Paramhansa Yogananda, opera che descrive le quattro scritture shastriche della cultura mistica orientale che riguardano i molteplici aspetti della vita umana.
Gli Yes provenivano da un trittico eccezionale composto da “The Yes Album”, “Fragile” e, come descritto, “Close To The Edge”, considerati il climax assoluto espresso dal cosiddetto rock intellettuale di quegli anni. Il 1973 era stato pieno di impegni ed importanti riconoscimenti per il gruppo. Nel maggio di quell’anno era stato dato alle stampe il mastodontico triplo vinile dal vivo “Yessong”, ritenuto a furor di popolo e di critica come uno dei più riusciti live nella storia del rock degli anni Settanta (da segnalare l’esordio alla batteria della new entry Alan White al posto di Bill Bruford, presente solo in due tracce). Tutto sembrava andare per il meglio, ma qualcosa iniziò ad incepparsi nel perfetto e lubrificato meccanismo della band, specie durante l’estate, quando iniziarono le registrazioni del famigerato “Tales From The Topographic Oceans”.
La musica inevitabilmente rispecchia la complessità dell’idea di partenza, spingendo le sonorità della gruppo verso i confini (ed i limiti) del rock progressive, dilatando i quattro brani fino alla durata di circa venti minuti ciascuno, sfiorando in alcuni punti la monotonia e lo spleen baudeleriano; in altri la genialità, in particolare nel brano di apertura “The Revealing Science Of God”, con i suoi intrecci vocali ed i vari passaggi strumentali, a volte possenti altri rarefatti. Si presti attenzione in particolare ai magistrali assoli al Minimoog di Wakeman o in “Ritual”, alla possente sezione ritmica, magnificata dalla batteria di Alan White e degli splendidi walking di Chris Squire al basso elettrico. In taluni frangenti nel disco si raggiungono livelli di pura genialità esecutiva ed interpretativa.
Nonostante tutte le critiche ed in barba ai calunniatori, il concept musicale, corroborato da una creativa cover-art, tra le più affascinanti mai realizzate in tale ambito, disegnata sempre dall’incontenibile Roger Dean, raggiunse il primo posto in madrepatria e la sesta posizione nelle charts americane di Billboard. Wakeman decise in seguito di abbandonare gli Yes per divergenze artistiche: era talmente stufo di alcuni passaggi di “Tales From The Topographic Oceans” che, durante uno concerto, si mise a mangiare sul palco sbeffeggiando gli altri. Quindi venne sostituito dallo svizzero Patrick Moraz, ma questa è davvero un’altra storia.