FREDDIE HUBBARD – «HUB-TONES», 1963

// di Francesco Cataldo Verrina //

Freddie Hubbard pur dotato di notevoli capacità espressive e compositive (a volte eccessivamente istintivo e muscolare), rimase una sorta di «piccolo genio» incompleto, forse perché catapultato sulla scena in un momento in cui i fermenti vivi dell’avanguardia avevano già iniziato ad agitare le acque ed a scardinare alcune certezze nell’ambito del jazz mainstream. Il trombettista avrebbe dovuto nascere almeno dieci anni prima. Hubbard fu un sorta di talento retrodatato: la migliore espressione dell’ hard bop anni ’50, tipico dei Messengers, i cui effetti collaterali debordarono sino ai primi anni ’60.

Pur avendo partecipato ad alcuni dischi sperimentali come sideman (ma fu solo un adattamento o una necessità dell’etichetta discografica in quel momento), i suoi dischi come band-leader rappresentano l’involucro conservativo del miglior hard-bop d’annata, come certi vini, specie se con etichetta Blue Note. Freddie Hubbard aveva 25 anni quando nel novembre del 1963 diede alle stampe «Hub-Tones», con James Spaulding al sax alto e al flauto, il pianista Herbie Hancock, il bassista Reggie Workman ed il batterista Clifford Jarvis. Il suo album precedente, «Ready for Freddie», era stato molto acclamato e caratterizzato dalla presenza di McCoy Tyner, Art Davis ed Elvin Jones come sezione ritmica: soprattutto 1963, pur non avendo mai definito i contorni precisi di una forma sonora personale, Hubbard era già considerato primus inter pares, ottenuto il plauso di pubblico e critica ed il riconoscimento da parte di illustri colleghi, avendo registrato con Art Blakey & The Jazz Messengers, Ornette Coleman e John Coltrane, i cui esperimenti modali stavano cominciando a influenzare il suono e la visione musicale del giovane trombettista.

Per l’occasione il quintetto fissò su nastro quattro composizioni dei Hubbard, dando spazio come opener allo standard di Dixon/Young/Warren, «You’re My Everything», dove il trombettista sviluppa un assolo spettacolare liberando estro, tecnica ed inventiva in modo equilibrato e convincente, per poi cedere la staffetta al contralto di Spaudling che immerge la sua improvvisazione negli abissi del blues. Parliamo di un disco non rivoluzionario, ma solare e vivace, il classico hard bop stagionato con un piacevole retrogusto anni ’50 , diluito con qualche essenza modernità : «Prophet Jennings» ha un incedere dinoccolato e flessuoso con degli ottimi cambi di passo e scambi di cortesia fra tromba e flauto; la title-track «Hub-Tones», la traccia più estesa della durata di oltre otto minuti, è segnata da una fluente corsa di Hancock sui tasti e da un assolo di batteria di Jarvis, degno dei migliori maestri dell’hard bop; «Lament for Booker», dedicata all’allora scomparso trombettista Booker Little, nel suo cupo e dolorante procedere, raggiunge vette di lirismo e di pathos non comuni; «Will o’ The Wisp», è una ballata che offre una vetrina espositiva al flauto di James Spaulding.

Registrato il 10 ottobre del 1962, «Hub-Tones» è un album di assestamento che appartiene ad una fase interlocutoria della carriera di Hubbard, il quale stava sperimentando, condizionato dalle avanguardie che cominciarono ad entrare anche nell’orbita della Blue Note. Nel complesso è un lavoro ben organizzato che sottolinea le capacità organizzative e compositive del trombettista, ma che, forse, nel 1957 avrebbe funzionato molto di più.

EXTRA LARGE

FREDDIE HUBBARD – «ECHOES OF BLUE», 1976

Pubblicato nel 1976 dall’Atlantic, «Echoes Of Blue» di Freddie Hubbard è un album bifronte, registrato con un organico intercambiabile, dove il trombettista mostra tutta la sua propensione per il funk e le atmosfere latine. Albert Dailey (tracce: A1, A3, B2) e Kenny Barron (tracce: B1, B3) pianoforte, Bob Cunningham e Herbie Lewis basso (traccia: A2), Freddie Waits, Louis Hayes (tracce: A2, B3) e Ray Appleton batteria (traccia: B1), F Benny Maupin (traccia: A2), e James Spaulding flauto, James Spaulding (traccia: A, B2) flauto ed alto sax, Ray Barretto (traccia: A1) e Roman Broadus (traccia: B1) percussioni. La B-side è tutta farina del suo sacco, con tre composizioni che portano la firma di Hubbard, a cominciare dall’iniziale «Latina» che da sola vale il prezzo della corsa: un accattivante melodia dal cuore caraibico, scandita dall’andamento percussivo delle caongas, ma innestata su un solido bop dal temperamento funkified; «On The Que-Tee» è un hard-bop up-tempo con qualche progressione trasversale, dal vago sapore Jazz Messengers.

Sul finale un omaggio a Bud Powell con «For B.P.», dove il piano di Kenny Barron fa un capolavoro, innescando e plasmando le fughe del band-leader. La facciata A si sostanzia in tre standard rivitalizzati con inventiva, tra cui spicca l’iniziale «Backlash» di Donald Pickett, dove tornano le coordinate geografiche tracciate dai Messengers, segnate su carta millimetrata di tipo soul-jazz, in cui il cuore pulsante di una caotica metropoli presta il suo battito urbano ed il sostegno ad una melodia a presa rapida, che si conficca nelle meningi per non andare più via; «A Bientot» è una ballata mid-range marcatamente soulful e ricamata dal suono vellutato del flicorno; infine «Eachos Of Blue» è un blues spasmodico e divorante, che ricorda vagamente talune atmosfere mingusiane. Un album di eccellente fattura, superiore a tanti copia e incolla Blue Note degli anni ’60. Considerando il periodo storico, siamo nel 1976, Freddie Hubbard si eleva ancora al di sopra della media.