// di Roberto Zorzi //

Mai stato un big fan della musica brasiliana, per qualche motivo non mi ha mai fatto impazzire (colpa di Arbore? Di Stan Getz? Mah…). Né riconosco la grandezza e la straordinaria vitalità, ma così è. Ma c’è un musicista e produttore, Arto Lindsay, che con i suoi album solisti e i lavori per conto terzi ha creato negli anni una vera e propria “variante brasiliana”, originalissima nell’orchestrazione, nell’uso della voce, sfoltendola dal quel quantum “turistico” e calligrafico che negli anni il samba si è portato dietro. Jazz? Forse si, forse no, o almeno non completamente, sicuramente meritevole di ascolto molto attento e senza pregiudizi.

Mezzo brasiliano è mezzo americano, Arto percorre queste strade da almeno trent’anni, mescolando sapientemente le due culture ed i due (o forse più) diversi tipi di suono, uno decisamente “user friendly” e che ha trasferito su grandi come Caetano Veloso e Marisa Monte, producendo loro album o brani, l’altro decisamente newyorkese e noise, che gli ha permesso di lavorare con tutta la scena downtown delle Grande Mela, a partire da John Zorn nei primi 80. Con la sua “Danelectro” è capace di devastarti i padiglioni auricolari, però poi ti piazza una malinconica ballata ugualmente cantata in brasiliano o americano o un “samba reloaded” e tu sei finito.Sono un suo fan dal 1981, quando uscì il primo Lounge Lizards prodotto da Teo Macero. Quindi sono poco attendibile.

Sono 17 anni che è venuto a mancare Derek Bailey, musicista ed intellettuale raffinato tanto amato e venerato (moltissimo da altri musicisti), quanto detestato ed avversato da altrettanti critici e puristi del jazz. Voglio solo ricordare la sua grande ironia (che traspare da tante sue interviste e nel suo fondamentalissimo “L’improvvisazione, sua natura e pratica nella musica” ed autoironia che esce in tutta la sua evidenza nel suo ultimo lavoro, pochi mesi prima della scomparsa. In “Carpal tunnel” racconta la malattia e di come per un po’ è riuscito ad arrangiarsi a suonare nonostante l’handicap: commovente e struggente quando si spegne l’ultima nota. Un album che mi sento di consigliare anche a chi non lo ama per la potente carica umana ed emozionale che lo attraversa.

Rimestando tra i ricordi di un Verona Jazz che ormai è defunto da almeno 15 anni, saltano fuori Andrew Hill, Ran Blake, Jaki Byard, George Russell, Bill Dixon, George Lewis, Muhal & Amina, Buell Neidlinger, Julius Hemphill (e sicuramente qualcuno lo dimentico). Tutti poi nobilitati da varie e svariate incisioni per Black Saint/Soulnote grazie alla lucida follia di Giovanni Bonandrini. Ricordi che un po’ si scolorano, un po’ riaffiorano lasciando un velo di malinconia, mantenendo però inalterata la consapevolezza che si fece qualcosa di importante per molti anni. La testimonianza sta anche in questi album.

Parliamo di uno strumentista eccelso, Paul Rutherford, la cui storia percorre 40 anni di jazz europeo ed è ugualmente innervata dal dixieland e dalla free music, passando attraverso le molteplici esperienze delle big band inglesi (Westbrook, Gibbs, Brotherhood of Breath) per arrivare negli ultimi anni della sua vita fino alla scena di Chicago anni 2000. Album di non immediata fruizione, ma stilisticamente ineccepibili e ricchi di richiami, a volte ironici, ma sempre rispettosi, alla tradizione del jazz. Con John Stevens, Tony Oxley, Howard Riley, Trevor Watts, Dave Holland costituì il nucleo primario della improvised music in UK, con Derek Bailey e Barry Guy formò il trio Iskra 1903 che, a mio avviso, resta il gruppo, con lo Spontaneous Music Ensemble, che meglio seppe unire jazz, improvvisazione e musica contemporanea.