// di Roberto Zorzi //

ANTEFATTO:

Quella sera di metà luglio 1973, in cui al Teatro Romano di Verona si esibì Miles, ll giovane approcciò il concerto pieno di speranze, avendo orecchie e visceri pieni di “Bitches Brew”, di McLaughlin, Corea, Hancock, e compagnia bella. Ma rimase deluso: il suo eroe, arrivato sul palco con un’ora abbondante di ritardo, suonò con le spalle costantemente rivolte al pubblico (era incazzato per motivi suoi, evidentemente) e la musica apparve alquanto confusa e confusionaria, monotona.

Fortunatamente il giovane si consolò con il gruppo di supporto, il Trio Idea (Liguori, Roberto Del Piano, Filippo Monico più Massimo Urbani) che infuocò talmente la serata tanto da far rompere a Roberto Del Piano una corda del basso che gli tagliò un dito. L’indomito proseguì a suonare grondando sangue, fino a che non fu costretto a farsi medicare. Poi ricominciò come niente (o quasi) fosse. Il tutto fu immortalato da alcune foto di Roberto Masotti.

POSTFATTO:

Quell’estate Miles pubblicò “On The corner”, che fu fatto a fette dalla critica. Pochi mesi prima era uscito “Live at Philarmonic Hall”. Il giovane ne era venuto in possesso dopo il famoso concerto, ma, forse perché ancora sotto l’effetto straniante di quella serata, non lo aveva particolarmente gradito, confinandolo nel cassetto delle cose superflue. Passa qualche anno e l’ex-giovane comincia a ripercorrere e riascoltare alcuni musicisti che negli anni aveva in parte accantonato, tra gli altri Frank Zappa e il Miles Davis ’70/’75. Tra le prime cose di Miles tornano alla luce proprio “On the corner” e quel live.

La prospettiva era completamente cambiata, ora quella musica che allora appariva monotona,

troppo scura nei timbri, troppo ballabile a tratti, ora comincia a risplendere di una sua quasi perversa magnificenza, sguaiata ed allo stesso tempo molto intimista. L’uso insistito è costante del wah wah (una assoluta novità) mantiene quel timbro generale molto scuro, ancestrale, ma è proprio lì che si va a cadere: sono due album, soprattutto il live, che per l’ormai vecchio ex-giovane, assieme all’opera di Sun Ra ed trio di Cecil Taylor, forse raccontano meglio di tutti l’epopea della Great Black Music e della Grande Madre Africa con i suoi suoni.

Volendo rimanere legati a quel periodo. Due album che potrebbero mettere d’accordo “avanguardisti” e “tradizionalisti” (i termini sono puramente indicativi ovviamente), lungo i quali composizione anche accademica come quella di Braxton si sposa con la formula shorteriana. Parliamo di “Nefertiti” opportunamente rivista, ma non stravolta, o con la delicata melodia della hollandiana “Conference Of The Birds”. Le parti strutturalmente improvvisate non mancano, fondendosi ed alimentandosi dal substrato compositivo. Gli album uscirono a poca distanza l’uno dall’altro (’71/’72) e sono, credo, da considerare due pietre miliari, assolutamente affrontabili da molti palati curiosi che eventualmente non li conoscano. Una parola merita Barry Altschul: lo scoprii proprio in “Circle” e fu una totale illuminazione (con Sam Rivers, nei quartetti di Braxton fu indispensabile), un grandissimo forse troppo dimenticato, al quale Joey Baron e Bobby Previte, giusto per fare un paio nomi della generazione successiva, credo si siano ispirati.

Miles Davis At Philarmonic Hall