Roy Eldridge – “Montreaux ’77”, 1977

// di Bounty MIller //

Questo album può avere una duplice chiave di lettura: potrebbe essere considerato un disco dell’Oscar Peterson Trio con la partecipazione di Roy Eldridge come bonus aggiuntivo; diversamente, come l’ultimo ruggito di un vecchio leone della tromba combattivo ed indomito, quasi settantenne, supportato dalla migliore sezione ritmica allora in circolazione; probabilmente sia l’una e l’altra cosa. Per uno strano gioco del destino, Roy Eldridge non riuscì più a fare nessun altro disco come vero band-leader, il successivo, ed ultimo definitivamente, fu una comproprietà; da lì a poco sarebbe stato colto da una grave malattia, che gli avrebbe impedito di suonare la tromba per i restanti dieci anni della sua vita. A parte le implicazioni storiche ed umane, questo è un ottimo album, peraltro di eccellente qualità sonora, pur essendo registrato dal vivo. Pubblicato su etichetta Pablo Live, venne definito dallo stesso Oscar Peterson come uno dei migliori live, tra i tanti da lui realizzati.

L’elemento sorprendente e caratterizzante è sentire l’attempato Roy Eldridge, dopo quarant’anni di onorata carriera, esprimersi in maniera audace ed energica e con la grinta di un debuttante voglioso di dimostrare ancora qualcosa. Una condizione straordinaria e favorevole ad una ripresa dal vivo. Nel jazz, dove l’elemento primigenio ed istintivo sono determinanti, ogni sorta di appagamento fa scivolare gli artisti nella routine e nel manierismo, ma non fu questa la circostanza. “Montreaux ’77” mostra Oscar Peterson al pianoforte, Niels Henning Orsted Pedersen al basso e Bobby Durham alla batteria in una condizione straordinaria: la loro intesa è perfetta; soprattutto si ha la percezione che “Little Jazz”, questo il nomignolo affibbiato ad Eldridge, avesse il sentore che la registrazione del concerto sarebbe, forse, stata il suo canto del cigno. Sembra che il piccolo uomo avesse puntato i piedi per terra, cercando di innalzarsi verso il cielo attraverso il suono della sua tromba, che a volte corre veloce in senso di sfida come ai tempi delle bonarie competizioni tra i solisti dell’epopea d’oro del jazz classico e del bop.

Roy Eldridge non mostra i segni del tempo e non appare per nulla un uomo al crepuscolo. Lui che aveva già cominciato ad incidere dischi negli ’30, noto per l’uso di sofisticate armonie e l’attitudine alla sostituzione tritonale; lui che aveva vissuto l’era delle big band da protagonista, assorbito la lezione di Benny Carter e poi guadato indenne verso la nuova era bop del dopoguerra attraverso l’affiatato sodalizio con Coleman Hawkins. Anche in questa occasione Eldridge riesce ad essere l’anello di congiunzione fra due distinte epoche del jazz del Novecento, ponendosi a metà strada tra liricità di Louis Armstrong e il dinamismo di Dizzy Gillespie, in particolare rievocando a tratti le atmosfere dell’epopea di Duke Ellington e quella di Charlie Parker in un afflato di rara bellezza con la terna ritmica. Il repertorio scelto si sostanzia in due composizioni firmate Eldridge: “Gofor”, dove il picchiettante e limpido pianoforte di Oscar Peterson innesca una gara di velocità con la tromba, tra applausi scroscianti, da manuale l’assolo del basso vibrante di Niels Henning Orsted Pedersen; mentre “Joy The Roy”, sicuramente il momento clou dell’album, ricrea con ironia un’atmosfera blues anni ’30 alla Satchmo. Pedersen annuncia il tema con passo flessuoso da “Pantera Rosa”, Eldridge lo riprende ed inizia la sua scalata in crescendo, mentre il basso lo accompagna per un tratto con la lucentezza di una chitarra; dal canto loro piano e batteria, dalle retrovie, procedono con piglio quasi divertito; sul finale ottimo scambio tra contrabbasso e pianoforte: un numero tipico dell’Oscar Peterson Trio.

“Perdido” offre al pianoforte di Peterson di volteggiare creando un’atmosfera retrò quasi alla Earl Hines, fino a quando la tromba non squarcia l’aria riconquistando la scena, basso e batteria si concedono una fuga in simultanea nell’interludio, quindi una piacevole alternanza in velocità fra piano e tromba, sostenuti da rullanti tamburi di guerra. “Goodbye Blackbird”, dal titolo emblematico è un bop primordiale, dove a tratti sembra di udire l’eco della tromba di Gillespie. L’inziale “Between The Davil And Deep Blu Sea” non è da meno, il trio spinge il vecchio Roy verso un bop insanguato di soul; non manca neppure l’atmosfera soffusa della ballata, in “I Surrender Dear”, dove il lancinante pathos che la tromba di Eldrige sprigiona, viene magnificato dal tocco avvolgente del piano. Dunque, brividi garantiti per tutti gli animi gentili, fino a quando Oscar Peterson non si ritaglia il suo spazio da protagonista e porta il brano fuori dal sotterraneo notturno, quindi imbeccato dal dinamico basso dello svedese; Eldridge legge con attenzione il groove e cambia passo sino alla chiusura dei battenti. “Montreaux ’77” è un album che non dovrebbe mancare, senza se e senza ma.