// di Guido Michelone //
La morte di Raoul Casadei ha commosso tutti, jazzisti compresi, alcuni dei quali, anche in tempi non sospetti, iniziarono a improvvisare su temi, melodie, ritmi, coloriture del ballo liscio, con molti anni di ritardo rispetto a quanto espresso dai colleghi europei: insomma Gianni Coscia, Gianluigi Trovesi, Simone Zanchini, Luisa Cottifogli, Claudio Zappi rappresentavano, quando si confrontarono con questi repertori, una nuova via al jazz padano. Su Raoul Casadei invece i mass media ufficiali sono stati i primi a tesserne gli elogi, avendo però la memoria corta, dimenticandosi quanto i colleghi di 50, 30 o 20 anni prima scrivevano o meglio non scrivono su di lui. Tra i Casadei, suo zio Secondo, è considerato di fatto l’inventore del liscio italiano, mentre Raoul ne ha creato una versione moderna.
Pur famoso di colpo, tra il popolo della sinistra nei primissimi anni ’70, Raul viene invece emarginato dalle élites culturali, quasi tutte d’impronta marxiste. escluso perciò dai salotti buoni dei radical chic, diviene il simbolo di kermesse assai simili alle sagre di paese, con tre sole ragguardevoli differenze: le bandiere rosse all’ingresso, gli stand dei paesi dell’Est e la programmazione musicale per così dire variopinta, onde poter accontentare ogni potenziale elettore: le serate alternano i divi di Canzonissima (di provata fede togliattiana e poi berlingueriana), i complessi pop-rock (altrettanto fedeli alla linea), i cantanti folk (e poco dopo i cantautori), qualche solista classico (per il contentino ai dirigenti) e appunto il ballo liscio, di cui Raoul resta lo storico artefice, erede rinnovatore di tradizioni parentali da fine Ottocento.
Gli intellettuali di partito sono però restii a occuparsi di un musicista e un fenomeno popolarissimi, troppo presi a dibattere sulla vera musica, attraverso compositori e musicologici che, da Luigi Nono a Luigi Pestalozza, sedotti dalle teorie di Thedor W. Adorno, rifiutano ogni manifestazione contemporanea che non rientri nel solco della dodecafonia (e degli ulteriori sviluppi) ricondotta a forme e contenuti di stretta militanza ideologica. A bilanciare questi diktat che suonano quale chiusura verso l’eccentrico o il diverso, nasce la ricerca sul campo degli etnomusicologi, che si avvicinano, per la prima volta in Italia, a un folclore arcano ormai in via di estinzione (semmai resuscitato da certo folk revival). Verso i fenomeni pop, intesi quale popular music e anche nel senso gramsciano del nazionalpopolare – di cui fanno parte tanto Raoul Casadei, quanto Nilla Pizzi, Gino Paoli, Mina, Guccini o la PFM – l’intellettuale del PCI mantiene un riservo di facciata, che spesso tradisce atteggiamenti di misconoscenza, superiorità o disprezzo.

Anche il mondo cattolico ufficiale, per ben altre ragioni, non prova simpatia per la musica solare e l’Orchestra Spettacolo che presenta coriste in ambiti succinti e che fa danzare i giovani a coppie, stretti stretti o guancia-a-guancia: gli stessi anatemi, lanciati da vescovi e sacerdoti, lungo il primo Novecento, contro il tango, il fox-trot, il boogie, il rock’n’roll e lo shake, ora si riversano su un ballo deciso ad ammodernare passi, gesti, scatti del tango, del valzer, della polka, della mazurca, del paso doble. A turbare il bigottismo – non certo la Chiesa dei preti-operai e delle messe beat – sono la divertita fisicità, l’allegria ruspante, la fratellanza laica del liscio di Casadei, il quale arriva maturo in una Nazione già quasi assorbita dal modello sociale consumistico, all’epoca stigmatizzato dal fronte cattocomunista di una frugalità pseudo-antropologica, peraltro in quegli anni difesa persino da una mente libera come Pier Paolo Pasolini (severissimo verso tutte le musiche giovanili).
Il ballo liscio di Casadei spesso definito volgare, deplorevole, peccaminoso dalla parrocchia democristiana – con una punta di ostracismo anche nella RAI filogovernativa, che riserva a Raoul una sola deludente partecipazione a Sanremo 1974 con La canta – viene parimenti ‘sconsacrato’ da ciò che il sociologico Peppino Ortoleva definisce l’altra parrocchia, quella comunista ortodossa: il PCI, che in materia vuole mostrarsi aperto e al contempo mantenere il primato di ‘detentore della cultura’ – nonostante le richieste di rinnovamento già prima del ‘68, forse addirittura dal neorealismo postbellico – nei confronti della comprensione profonda di fenomeni massivi (non solo Casadei, ma pure Beatles, cantautori, jazzmen), in realtà si chiude a riccio, lanciando snobisticamente (e anacronisticamente) un’idea di sapere, conoscenza, estetica, comunicazione, spettacolo in chiave seriosa, nobile, impegnata, che sembra ancora succube tanto del realismo zdnaoviano di stalinista obbedienza quanto dell’idealismo filosofico di Benedetto Croce, quando separa manicheisticamente ciò che è arte da quello che non lo è.
