// di Roberto Zorzi //

Uno dei musicisti/compositori che più ho amato, da venti anni a questa parte, è il polisassofonista chicagoano Ken Vandermark. Figlio di una scuola che ha fatto la storia, quella che parte dal blues metropolitano e attraverso Sun Ra e l’AACM e che ha mostrato, per almeno 30 anni, una sorprendente vitalità. KV ha partorito una serie infinita di progetti, forse anche troppi, segno questo cmq di una grandissima creatività. I suoi V5 sono stati una gruppo a mio avviso eccezionale, così come il DKV trio con Kent Kessler al contrabbasso e Hamid Drake alla batteria. Vagabondando tra jazz più o meno free e istanze più “rockettare” il nostro ha prodotto con grande amore verso il passato (Fred Anderson, Don Cherry, Ornette, Roland Kirk, Carla Bley, Sun Ra. Dolphy, Jimmy Giuffre…) e alcuni album da ascoltare assolutamente. Il secondo dei due doppi “Free jazz classics” è interamente dedicato alla musica di Roland Kirk e Sonny Rollins, il doppio “Trigonometry” del DKV viaggia tra Don Cherry, Sonny Rollins, Ellington, Ayler. Gli altri componenti dei V5 portano soprattutto le loro composizioni originali.

Il focus è l’album del “legendary Hasaan” (Drums unlimited lo conoscete tutti). Per sua stessa ammissione, ispirato soprattutto da Elmo Hope (altro grandissimo semi dimenticato), Hasaan Ibn Alí ha registrato ufficialmente due soli album in vita sua, tra il 1964 ed il 1965, uno è questo e l’altro, inizialmente cassato dalla Atlantic a causa dell’arresto per droga del pianista, è stato pubblicato per la prima volta l’anno scorso dalla etichetta Omnivore Recordings con il titolo “Metaphysics:“The Lost Atlantic album” ed accolto entusiasticamente dalla critica. L’album con Roach e Art Davis al contrabbasso è sicuramente una gemma da (ri)scoprire: le composizioni sono tutte di Hasaan e raccontano di un pianismo di assoluta eccellenza e di una scrittura che definirei di “melodismo d’avanguardia”, dove Monk, Nichols, Hope convergono in un unicum personalissimo. Hasaan è morto nel 1980.

Quello che mi ha sempre affascinato del jazz inglese è il suono, un timbro generale risconoscibilissimo, inconfondibile sia nei combos che nelle big band. Sarà forse perché gira e rigira i musicisti coinvolti erano più o meno sempre gli stessi e gli arrangiamenti ruotavano intorno a figure ben definite, ma questa è sempre stata (ed è) la mia impressione. In ogni caso basta ascoltare un album come “Tales Of The Algonquin” o “Marching Song” per rendersi conto della potenza e della profondo interplay tra di loro e godere della bellezza di composizioni ed arrangiamenti spettacolari. I Brotherhood of breath di Chris McGregor erano un mondo un po’ a parte, essendo la loro musica basata molto sulla tradizione popolare sud africana (il nucleo, i Blue Notes si trasferì a Londra nel 1964), ma sostanzialmente suonavano in quel modo. Si tratta di un patrimonio discografico immenso: Alcuni nomi: John Surman, Harry Beckett, Harry Lowther, Alan Skidmore, Tony Oxley, John Taylor, Paul Rutherford, Malcolm Griffiths, Alan Jackson, John Marshall, Elton Dean, Keith Tippett, Marc Charig, Evan Parker, Dudu Pukwana, Mongezi Feza, Harry Miller, Louis Moholo, Barre Philips, Chris Laurence, Jeff Clyne, Nick Evans, Mike Osborne, Barry Guy, Ron Mathewson, Gordon Beck, John Stevens, Ray Russell, Don Rendell, Phil Seamen, Ian Carr. E molti altri.

Piccole (o grandi?) storie da un jazz minore (o presunto tale). Correva l’anno 1987 e la splendida rivista Fare Musica aveva indetto il concorso “Indipendenti” per dare spazio alle produzioni italiane di ogni genere che non transitavano dai circuiti ufficiali. Nella sezione “Jazz” perteciparono anche i NAD (Niù Abdominaux Dangereux), la band di cui facevo parte. Mandammo la nostra cassettina, più per scherzo che per altro, e, con nostra assoluta sorpresa, ci ritrovammo vincitori. Ci facemmo delle grasse risate. La commissione giudicante vedeva la presenza di Gianfranco Salvatore e Maurizio Favot e ci considerò meritevoli del primo posto. Al secondo posto si classificò Amato Jazz Trio, tre straordinari fratelli siciliani (uno purtroppo è nel frattempo deceduto, ma credo siano ancora attivi) autori di alcuni album di assoluta eccellenza: “jazz moderno”, l’avrebbe definito Arrigo Polillo, “swingantissimo e compositivamente denso di idee, ottimi strumentisti”. Mi fa piacere ricordare sia noi, ma soprattutto loro, un combo che mi pare non aver mai visto nel cartellone dei maggiori festival italiani (magari mi sbaglio, eh…), mentre avrebbero assolutamente meritato di essere al top. Se vi capita ascoltateli, non resterete delusi.