Pablo Bobrowicky – “New York Connection”, 2005
// di Francesco Cataldo Verrina //
Pablo Bobrowicky, grande talento del jazz contemporaneo se ne andato troppo presto, a poco più di 40 anni”, stroncato da una grave malattia, lasciando un vuoto incolmabile. Proveniente da famiglia una ebrea di origine libanese trapiantata in Argentina, dopo aver appreso i primi rudimenti di chitarra a partire dall’età di 5 anni, si dedica allo studio approfondito del jazz. Nel 1994 approda nella Grande Mela dove conosce il suo mentore ideale, Jim hall, che lo spinge a continuare, spendendo per lui delle parole di lode, che valgono più di un titolo accademico: “La sua sensibilità ritmica è eccellente. E’ molto semplice suonare un solo quando lui accompagna con il suo ritmo. Sviluppa benissimo le sue idee! Per me questa è la cosa più importante e ciò lo aiuterà a trovare la sua voce nel jazz e il suo stile personale per esprimersi. Quando improvvisa è molto melodico. Pablo ascolta e reagisce molto bene. Abbiamo suonato “Straight No Chaser” medium e lui ha eseguito un solo formidabile. Abbiamo suonato anche altri temi insieme per un bel po’ di tempo ed è stato perfetto. E’ un vero piacere ascoltarlo”.
Gianni Morelenbaum Gualberto scriveva di lui: “Artista che si fa apprezzare per l’originalità dell’approccio anche al linguaggio jazzistico più ortodosso (come dimostrano le elaborazioni dei due celebri temi monkiani o la breve, quasi folgorante collaborazione con Bobby Watson), Bobrowicky emoziona ogni volta che l’improvvisazione di ispirazione jazzistica diventa strumento di ricerca flessibile e di collegamento con altre tradizioni culturali. L’eredità culturale di Bobrowicky, probabilmente di origine europea ed ebraica (polacca, a giudicare dal cognome), non ha un ruolo preponderante ma si relaziona alla pari con l’esperienza multietnica così caratteristica della moderna cultura argentina: gli echi, a volte leggeri a volte più pesanti, degli antichi ritmi andini e afro-brasiliani permeano le composizioni/improvvisazioni con un’ampiezza pari alla terra che le ha prodotte. Bobrowicky sembra essere un nuovo esploratore musicale. Il percorso che sembra volerci indicare porterà probabilmente ad altre ricchezze oggi ancora sconosciute“.
Determinante sarà l’incontro con Sergio Veschi della Red Records, il quale dopo aver sentito una sua demo, ne intercetta subito il talento e le enormi potenzialità, decidendo di pubblicargli un primo album, a cui ne seguiranno altri quattro, tra cui “New York Connection” del 2005, registrato il 23 e 24 febbraio del 2004 allo Studio 900 di New York, contenente anche due tracce live. Bobrowicky alla chitarra è accompagnato da Edward Simon al Piano, Eric Revis al basso e Bruce Cox alla batteria, mentre nelle tracce 1, 5 e 9, arrangiate da Fabio Morgera, sono presenti Itai Kriss al flauto, Jason Jackson al trombone e al trombone basso e lo stesso Morgera alla tromba e al flicorno. L’album mette in risalto l’originalità del fraseggio del chitarrista argentino, nonché una tecnica sopraffina mai fine a sé stessa o al virtuosismo di maniera, una rara abilità nell’intessere trame ritmiche assolutamente inusuali, coniugata ad una insolita capacità di tenere il tempo.
Sergio Veschi lo definiva così: “La caratteristica principale di Pablo mi sembra l’estrema naturalezza delle cose che suona, l’originalità dei fraseggi e, in generale, la sua grande rilevanza jazzistica. C’è il jazz di sempre ma anche un’introduzione lessicalmente rilevante di ritmi inusuali come Murga, Candombè, Chacarera, Zamba e altri ritmi di derivazione africana e afro-indiana, localizzati soprattutto nelle zone dell’Argentina che confinano con Uruguay, Paraguay, Brasile, Bolivia. Pablo suona indifferentemente, a seconda delle esigenze espressive del brano, sul quattro con uno swing che richiamerebbe molti artisti swing di New York e Harlem, sia sui tempi dispari che sugli spazi. In altre parole, non ha problemi di tempo e di ritmo, possiede il senso della costruzione melodica e dell’architettura solistica, e non copia nessuno pur avendo, come tutti, influenze riconoscibili che si dissolvono in una musicalità originale e personale che privilegia il sentimento rispetto all’esibizione tecnica“.
Basta ascoltare le varie tracce per percepire, già al primo impatto, un affinato gusto melodico e un innato senso della costruzione armonica che caratterizzano ogni assolo, consentendo ai sodali di muoversi agilmente e di esprime le proprie istanze sonore con un’empatia ed un senso di collegialità estrema. Su dieci brani, ben sette sono farina del sacco del chitarrista-compositore argentino. Spiccano per originalità anche i tre non originali scelti: “Y Todavia La Quiero”, utilizzato come opener, che stabilisce subito le coordinate dell’album e la rotta da seguire, attraverso un jazz meticcio dai tratti somatici latini, scandito da un suono quasi arcano e flautato, dove la chitarra di Bobrowicky sembra suonata con un plettro di velluto fra le mille righe di un tappeto sonoro, intorno al quale la sezione ritmica cuce un piacevole contrappunto; la stessa “Black Narcissus” sempre di Joe Henderson si risveglia in una nuova dimensione, dopo un intro sotterraneo di chitarra con il flicorno di Morgera che disegna un arazzo di suoni dallo sfondo quasi fiabesco, in cui s’innesta nuovamente la chitarra, il resto sono brividi, emozioni, magia.
“Plain Jane” di Sonny Rollins, geneticamente predisposto al passo latino, è ridisegnata su carta assorbente dove il contrasto agro-dolce fra trombone e tromba viene stemperato dalla perfetta punteggiatura della chitarra, che non fa rimpiangere l’afflato tenorile della versione originale. Nei tre brani descritti, la combinazione fra i vari strumenti a fiato sembra funzionare alla perfezione, tanto che ogni membro del front-line ha la possibilità di distendersi su una delle tre melodie; l’intelligente ripartizione offre maggiore varietà al suono, trasportandolo in una dimensione non convenzionale, rispetto al quartetto chitarra-pianofono-basso-batteria, dove il clima cambia notevolmente. Lo sviluppo melodico-armonico è coinvolgente, ma più serrato, la scena meno affollata e la chitarra ha maggiore possibilità di evidenziarsi. Ottimo il lavoro di piano da parte Edward Simon in “Some Changes”, molto a suo agio anche nel contesto soul jazz di “Suns”. Dal canto suo Bobrowicky esprime un elevato grado di imprevedibilità e colpi di scena a raffica in “Malbec”, concepito come un valzer jazz dalla forte intensità lirica e giocato su inaspettati cambiamenti; anche “One for Evans, pur nella sua semplicità, si sostanzia nell’improvvisazione e nei repentini cambi di umore che richiedono tecnica ed abilità da parte di tutta la band. “New York Connection” è un album non convenzionale nella sua simmetria ed asimmetrico nella sua semplicità di fruizione; originale e ben orchestrato, dove nulla è lasciato al caso.

EXTRA LARGE
Pablo Bobrowicky – “Where We Are, 1994
Talvolta bisognerebbe domandarsi, da dove venga il jazz degli ultimi trent’anni? Sicuramente, lontano dall’incestuosa e caotica, anche eccessivamente selettiva, scena newyorkese. La distanza dal “gorgo del peccato” consente agli artisti europei e sudamericani, spesso considerati offshore, di avere una prospettiva più libera, non condizionata durante sviluppo delle idee, ma soprattutto propedeutica ad una visione globale del jazz. Pablo Bobrowicky, grande talento del jazz contemporaneo se ne andato troppo presto, a poco più di 40 anni, stroncato da una grave malattia, lasciando un vuoto incolmabile. Proveniente da famiglia una ebrea trapiantata in Argentina, dopo aver appreso i primi rudimenti di chitarra a partire dall’età di 5 anni, si dedica allo studio approfondito del jazz. Come già raccontato, Sergio Veschi della Red Records, dopo aver sentito una sua demo, ne intercettò subito il talento e le enormi potenzialità, decidendo di pubblicargli un primo album, a cui ne seguiranno altri quattro, tra cui segnaliamo “Where We Are del 1999, un classico del trio per chitarra, che rasenta la perfezione.
Il chitarrista argentino, allora trentenne, al netto della selezione dei motivi che compongono il disco, che sono dei tributi, elabora una prospettiva a lunga gittata per un jazz più attinente agli sviluppi socio-economico-demografici della seconda metà del XX secolo. Il trio, formato da Pablo Bobrowicky chitarra, Jose Pepi Taveria batteria e Martin Iannacone basso, si misura con dieci standard, tutti attribuiti ai molossi del jazz: Coltrane, Ellington, Miles, Charlie Parker, Thelonious Monk e Gillespie, più quattro originali. Bobrowicky fonde magnificamente lo stile di Charlie Christian, Wes Montgomery e Jim Hall, trovando una sorta di break-even-point, o punto di pareggio ispirativo. Il Chitarrista argentino prende così a prestito, idealmente, il swing da Christian, la profondità del groove da Montgomery, e da Hall, il metodo per operare sulle ballate e sulle melodie lente. Quando Bobrowicky suona il blues, si respira a pieni polmoni l’essenza del jazz afro-americano, pompato attraverso un vibrante cuore argentino, ma restituito al mondo in maniera universale ed ecumenica.
Nel 2009 la Red Records pubblicò “Southern Blue”, che come il classico “Where We Are” (i due album a distanza di anni si legano e si completano), gioca sulla rivisitazione di standard, componimenti originali ed atmosfere latino-americane, tra cui “Barbados” di Charlie Parker, “Rythm A Ning” di Monk e tre capisaldi del repertorio di Duke Ellington: “Cotton Tail”, “Im’ Begginning to See the Light” e “C-Jam Blues”. Anche in questa circostanza il chitarrista argentino mostra uno stile lineare ed espressivo, senza fronzoli, cercando di essere meno protagonista, rispetto a dieci anni prima; per contro concede più spazio alla sezione ritmica con cui si fonde in maniera quasi telepatica.
