// di Roberto Zorzi //

Fra quella di tutti i musicisti legati all’avanguardia degli anni ’60, inclusi i geni, gli artisti competenti e gli zoppi imbonitori, la musica di Ayler sembrava evocare nei fruitori un’immediata reazione: pro o contro. Un perfetto esempio di reazione negativa si è verificato a Londra presso la BBC, dove Alan Bates aveva organizzato un’apparizione del gruppo di Ayler nel programma jazz della rete. Subito dopo la registrazione, un responsabile della programmazione, passando davanti allo studio in cui veniva riprodotto il nastro. Dopo averne scoperto la finalità di utilizzo, ordinò che fosse cancellato e distrutto. Quel nastro non esiste più. Immagino che il maggior problema che l’ascoltatore medio abbia dovuto affrontare, confrontandosi con Ayler e la sua musica, sia stato la ricerca di un punto di riferimento.

Ayler non è nato dai processi evolutivi del jazz moderno come come era accaduto con George Russell, Cecil Taylor, John Coltrane e Archie Shepp. La bellezza e l’eredità della musica del sassofonista si sono rivelate a me personalmente, quando ho ascoltato un nastro piuttosto raro della Eureka Brass Band di New Orleans, una ensemble di musicisti di colore tipico della fase iniziale del jazz. I ritmi semplici e lineari caratterizzati da strane correnti sincopate, l’intonazione variabile dei fiati, le marce, gli spirituals, la primitiva, ma forte qualità melodica della musica e soprattutto il clarinettista che, con il suo vibrato spalancato, piega le note al volere delle più ossessionanti variazioni melodiche. All’improvviso ho capito da dove provenisse Alber Ayler. Non dallo spazio siderale, ma dalle profonde radici della tradizione musicale africana e afro-americana. Ornette Coleman è stato forse il primo innovatore dell’ondata free a semplificare la musica, eliminando l’approccio armonico ed a scavare nella melodia con tutta la determinazione possibile, tanto che il fraseggio e il tono di Coleman non hanno mai tradito la sua eredità blues di marca texana.

Albert Ayler avrebbe dovuto fare un ulteriore passo avanti su questa strada, era il musicista folk dell’avanguardia, il quale sviluppava melodie semplici e indimenticabili come “Ghosts”, che molti ritengono essere l’inno della nuova “musica nera” degli anni ’60. Dopo aver affermato un tema, avrebbe perseguito variazioni e sviluppi improvvisativi, strappando il suo sassofono dalla morsa dei fondamenti della musica europea. Tutto ciò si evince dalle delle stesse parole di Ayler in un’intervista rilasciata a Nat Hentoff per di Down Beat (17 novembre 1966), in cui disse: “Mi piace suonare qualcosa, come l’inizio di “Ghosts”, che la gente possa canticchiare. Sarei desideroso di suonare brani come quelli che cantavo quando ero bambino o melodie popolari che tutte le persone possano capire: userei queste melodie come punto di partenza. Tra le mie composizioni ho diverse melodie cantabili che entrano ed escono da un pezzo, passando dalla struttura base alle trame più complicate, ritornando nuovamente alla struttura semplificata, quindi ancora ai suoni più densi e complessi”.

Seguono estratti dalle risposte di Ayler ad un’intervista, pubblicato dal parigino Jazz Magazine nel dicembre del 1965: “Quando la musica cambia, anche le persone cambiano. La rivoluzione nel jazz è avvenuta molto tempo fa, ma, proprio quest’anno, è successo qualcosa. Ovunque la gente si chiede, cosa stia succedendo (…) La musica che suoniamo oggi aiuterà le persone a conoscere se stesse ed a trovare più facilmente la pace interiore. L’ispirazione è necessaria a tutti noi. Può provenire da una parola, dal paragrafo di un libro, da un dipinto, da una poesia, da una canzone, da numerose cose. In realtà, non può succedere nulla se non sei pronto (…) Guarda la storia del jazz: Bolden, Armstrong, Bird, Monk, Coltrane, Taylor, Ornette, ecc., tutti avevano il loro modo di vedere le cose, tutti avevano nuove idee, la speranza di una nuova estetica che non conoscesse la distruzione, che né il potere né il potere costituito sarebbero in grado di uccidere (…) La libertà non è il privilegio di una sola generazione: è una conquista da rinnovare ogni volta. La libertà è una vittoria (…) Quando tutte le persone capiranno cosa li lega spiritualmente l’uno all’altro, la pace regnerà sulla terra”.

Albert Ayler, che ha incontrato una morte misteriosa nell’East River di New York alla fine del 1970, era molto in contatto con sé stesso. Pertanto, anche i suoi pensieri, le sue parole e le sue realizzazioni musicali sono molto in contatto tra loro. Basta ascoltare Albert Ayler in uno dei picchi del suo sviluppo artistico, “Ghosts”, in cui sviluppa un sound energico e coinvolgente. Così potente, infatti, che anche un pensatore autonomo e originale come Don Cherry inizia a suonare la tromba alla maniera di Ayler. (Michael Cuscuna).