(Freddie Redd Quintet – «Shades of Redd», 1961).
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando la puntina del giradischi inizia a solcare un disco come «Shades Of Redd» di Freddie Redd ti rendi conto di quanto la narrazione della storia del jazz moderno sia stata parziale e che andrebbe continuamente riscritta, o comunque andrebbero aggiunte delle note a margine. Apparentemente l’album potrebbe essere una via mediana tra il classico archetipo Blue Note ed un prototipo di hard bop di pregevole fattura; in realtà un ascolto più attento rivela particolari che collocano «Shades Of Redd» in un’area tematica che oltrepassa il modulo espressivo tipico del periodo: a parte l’ispirata combinazione del contralto di Jackie McLean e del tenore di Tina Brooks in prima linea.
Il disco fa emergere la feconda abilità compositiva di Redd, non prevedibile e non del tutto omologata allo standard espressivo dell’epoca. Forse più apprezzato per la colonna sonora della commedia e del film «The Connection» registrato nella stessa estate del 1960, Freddie Redd è stato sempre preso sotto gamba da una certa critica o comunque omologato in un calderone di figure rimaste a mezz’aria, eppure «Shades Of Redd» è un album anticipatore, già fuori dal concept tipico della Blue Note anni ’50. Ad onor del vero i cantori ed i divulgatori del jazz moderno, fra il 1958 ed il 1961, furono attratti e distratti da una serie di album epocali e seminali, rispetto ai quali molte opere coeve stentano a reggere il confronto. Ciò ha determinato una delle più evidenti disfunzioni narrative: coloro che avevano l’onere e l’onore di raccontare l’evoluzione del jazz moderno preferirono concentrarsi sulle principali linee di demarcazione, dimenticando tutto quel fermento creativo, non sempre di portata inferiore, che andava sviluppandosi intorno, quasi come un virus contagioso.
In molti preferirono sterilizzare il fenomeno e chiuderlo in una camera asettica in cui analizzare sempre gli stessi nomi ed i medesimi concetti; un metodo sicuramente propedeutico ad un’analisi critica ed una descrizione storico-giornalistica più agevole in quanto semplificata.
In «Shades Of Redd» non c’è un brano fuori squadro, non c’è zavorra, ma si sostanzia come un geniale costrutto sonoro perfettamente eseguito, dove l’acido, dardeggiante e tagliente alto sax di McLean stempera il sussiego ipercalorico del tenore di Tina Brooks, mentre lo stile ergonomico del piano di Redd, in odor di Bud Powell, non esegue una nota in più o fuori posto aprendo una prateria creativa agli strumenti a fiato. Dal canto loro, gli addetti alla retroguardia, Paul Chambers al basso e Louis Hayes alla batteria, sono imperiosi, muscolari e perfettamente nella parte. Nonostante la bellezza estetica e la ricchezza compositiva ed esecutiva, nonché il tipico suono dello studio di Van Gelder, «Shades of Redd» non è mai stato elevato allo status di disco fondamentale del catalogo Blue Note, pur essendo riconosciuto come parte essenziale dello stesso.

L’opener «The Thespian» dimostra immediatamente quanto Redd fosse proiettato in avanti rispetto al modus operandi del periodo. Lo stesso Wynton Marsalis, che l’ha più volte arrangiato ed eseguito con la LCJO (Lincoln Center Jazz Orchestra), ha sempre sottolineato l’insolita struttura, l’unicità e l’eccezionalità di una delle più seducenti composizioni nell’ambito dell’assortito repertorio Blue Note: drammatica e caratterizzata da una linea di basso ad arco, un cambiamento improvviso a doppio tempo che spinge il quintetto verso una serie di assoli coinvolgenti, tra cui quello di McLean diventa il punto culminante. In realtà trattasi di una ballata non convenzionale il cui tema viene proposto e sviluppato attraverso una progressione che acquista vivacità, brillantezza e movimento man mano che si procede, scardinando quello che era il tipico metro compositivo dei prodotti della ditta Lion-Wolff.
«Blue, Blues, Blues», molto più in linea con il mood del momento, si caratterizza soprattutto per il contrasto tra i due sassofoni. «Shadows» si basa su una scala blues suonata per lo più all’unisono, anche se i cambi risultano alquanto espansi, da qui nasce una struggente ballata, che riporta alla mente il commento sonoro di un film sentimentale, sviluppando un’atmosfera languida con i fiati che tessono una melodia vagamente autunnale e contrappuntistica, sostenuta dall’impeccabile accompagnamento di Redd.
«Swift» ha una melodia semplice con un arrangiamento che favorisce la sezione ritmica, la quale, a sua volta, diventa propedeutica per gli assoli della prima linea. «Melanie», con i fiati armonizzati, ha un suono quasi da piccolo mondo antico che si dirada attraverso un post-bop dal cancept moderno. «Just A Ballad For My Baby» ha un gioco ed un intreccio strumentale di altissimo livello ed un assolo fortemente lirico di Brooks. «Olé» disegnato come un perfetto affresco sonoro di jazz dal passo latino, una danza ispanica impiantata su una melodia a presa rapida, tra calypso e swing, dove Brooks si fa avanti con un memorabile assolo alla John Coltrane. Freddie Redd è un nome che ogni appassionato di jazz moderno dovrebbe conoscere; tra il 1957 ed 1960, il pianista registrò tre album memorabili: «San Francisco Suite» in trio per la Riverside, «The Connection» e «Shades Of Redd» per la Blue Note. Quest’ultimo è forse il punto più alto, il coronamento della sua attività discografica di compositore e band-leader. Davvero un peccato che la sua carriera si sia consumata in una sorta di rassegnata oscurità, segnata solo da ritorni occasionali.
Per la cronaca, «Redd’s Blues», sessione del 1961, rimase nei cassetti della Blue Note fino al 1988. «Shades Of Redd», registrato il 13 agosto 1960 e pubblicato all’inizio di maggio 1961, porta con sé l’ottimismo dell’epoca, ma con lo sguardo rivolto ai suoni più liberi di Trane ed Ornette, pur rimanendo strettamente legato allo swing dell’hard bop. Il lavoro di squadra espresso qui, rivaleggia con qualsiasi quartetto o quintetto dell’epoca, specie fra quelli molto acclamati. Il pianismo di Redd, mai spettacolare, eccessivo o esuberante, risulta invece colto, calibrato, mercuriale ed intelligente, tanto da resistere abbondantemente alla prova ed all’usura del tempo.