// di Irma Sanders //
Molti artisti sembrerebbero sfuggiti al controllo dei radar. Per una guida sicura ci affidiamo ad un vero esperto, il compositore-sassofonista Roberto Ottaviano.
Il Jazz è pieno di queste storie, ma in fondo l’Arte, e a dirla tutta, questa è la vita. Tuttavia in alcune persone, la voglia di non arrendersi e lottare, trova nello strumento con cui ci si vuole esprimere, un alleato speciale che non è dato a tutti di avere. Lui si chiama Wess “Warmdaddy” Anderson un sax alto (e sopranino) dal grande suono e dal fascino irresistibile, che combinati insieme sintonizzano il pubblico con uno swing implacabile sulla linea Parker – Adderley e con l’uomo straordinario che lo produce.
“Warmdaddy” iniziò a suonare il sassofono all’età di 14 anni. Frequentò i seminari Jazzmobile ad Harlem, studiò con Frank Wess, Frank Foster e Charles Davis e frequentò le jam session guidate dal sassofonista Sonny Stitt al Blue Coronet. Prima di entrare nella Southern University, dove ha studiato con il clarinettista Alvin Batiste, Anderson ha incontrato Wynton e Branford Marsalis. Nel 1988 è diventato membro del Settetto di Wynton Marsalis, con il quale ha suonato e registrato per vent’anni, ed è stato anche membro della Lincoln Center Jazz Orchestra da quando ha iniziato a suonare nel 1992 fino al 2006.
Nello stesso anno è entrato a far parte del programma MSU Jazz Studies, ma ha dovuto lasciare la facoltà dopo aver subito un grave ictus nel luglio 2007. Con la fisioterapia ha quasi ripreso la sua forma originaria anche se questo gli è costato del tempo che ha dovuto trascorrere occupandosi del ristorante Gumbo & Jazz di East Lansing, di proprietà di sua moglie Desi. Quando sembrava si fosse definitivamente ripreso ha avuto un secondo colpo nel dicembre 2012, dopo essersi trasferito a Baton Rouge. Ancora una volta una lunga riabilitazione. “Le mie mani hanno iniziato a svegliarsi, la mia bocca ha iniziato a chiudersi e ho detto, ‘OK, eccomi di nuovo!‘”, ha ricordato Anderson, e si è rimesso in pista a partire dalla primavera successiva.
“Finché avrà sangue che scorre nelle vene e respiro, continuerà a swingare“, ha detto Rodney Whitaker, contrabbassista e direttore della MSU, “Ama suonare la musica più di chiunque abbia mai incontrato in vita mia”. Anderson ha registrato e pubblicato quattro album da solista, intitolati “Warmdaddy in the Garden of Swing” (1994), “The Ways of Warmdaddy” (1996), “Live at the Village Vanguard” (1999). e “Space” (2008).
Il suo ultimo album, “Natural History“, è il ritratto di un uomo che ha messo a punto i valori essenziali della vita e si è consegnato completamente alla gratitudine. “Non posso suonare più velocemente come prima, ma adesso ho più tempo per prendere più libertà a un ritmo più lento. Ho ancora tutte le idee in testa.” (Pubblicato da Roberto Ottaviano su Jazz & Jazz, il 3 settembre 2019)

Per avere qualche dettaglio sul disco citato, ci affidiamo alla recensione del nostro esperto, Francesco Cataldo Verrina.
Wess “Warmdaddy” Anderson – “Natural History”, 2017
“Natural History” vede Wessell “Warmdaddy” Anderson al contralto, Mark Rapp alla tromba, David Ellington alla tastiere e all’organo e Chris Burroughs alla batteria. L’album è foriero di molte novità, ma ben ancorate alla tradizione. I quattro se la giocano solo con sei sostanziose tracce, tutte di forte impatto e candidate ad essere una potenziale title-track, o un brano di punta. Wess e compagni sanno come preparare una pozione magica ammaliante, ma senza effetti e difetti collaterali, mescolando uno stile ispirato ad un boogalo a facile presa, infarcito di blues e con le sembianze del jazz da classifica. Il gioco strumentale dei quattro sodali incrocia vecchio e nuovo con disinvoltura, guardando al futuro.
L’apertura è affidata a “Natural History”, la title track, che inizia con un battito di mani ed un canto d’altri tempi che riporta alle radici dell’umanità, fino a quando Chris Burroughs non scuote la ciurma con una furente tambureggiata. Il quartetto si scioglie e si da il via alle danze. Lo spirito oversize di Cannonball Adderley aleggia nell’aria producendo una calda sensazione soul-bop. Sembrerebbe un ritorno al passato, ma le sorprese non mancano. “Stroke Blues” è la quintessenza del blues, rilassato e distensivo. David Ellington all’organo diventa il deus ex-machina, distillandone il ritmo, il suono delle paludi e l’anima nera. L’atmosfera molto churchy è palpabile ma la destinazione non è una chiesa, piuttosto un affollato jazz club, soprattutto, qualunque prescelto, il groove, come alimentato da una dinamo, non si ferma mai acquistando progressivamente forza.
“Pati”, che è quasi uno spartiacque, divide la componente più swing da quella più blues dell’album, soprattutto non cela minimamente le proprie radici afro-cubane; anche quando inizia a spostarsi verso la fusion, il line-up ne mantiene costantemente vivo il groove latino. “Rosie Posie” e “Just Swing” sarebbero potenzialmente due componimenti per big band ben realizzati e condensati per un formato quartetto, dove potenza e swing tradizionale sono esplosivi e vitali e per nulla carenti, se si pensa al fuoco sbarramento che avrebbe generato una vera grande orchestra jazz. “Dem Dirty Blues” suggella l’album con una vaga atmosfera retrò stile New Orleans, ed è forse uno dei momenti più riusciti e coinvolgenti dell’intero costrutto sonoro, capace di sviluppare un languore vagamente crepuscolare e meditativo, sostenuto da un groove che dilata gli spazi e la mente.
Nel complesso l’atmosfera soul-blues di “Natural History” genera un un po’ di nostalgia, ma la miscela di suoni e timbri moderni mescolata al vernacolo degli standard classici del blues e del jazz, ravvivati da qualche essenza al lime dei Caraibi, rende il tutto estremamente fruibile e facile da metabolizzare.
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