STANLEY TURRENTINE – «LET IT GO», 1966.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel 1966 Stanley Turrentine abbandonò temporaneamente il comfort sicuro ed il caldo rifugio della Blue Note per avventurarsi nel mondo della Impulse! Records, l’etichetta concorrente con cui la moglie, l’organista Shirley Scott, aveva pubblicato alcuni suoi lavori. «Let It Go» fu un progetto ambizioso e la coppia venne affiancata dal bassista Ron Carter e dal batterista Mark Simkinsin. Un tentativo da parte di Bob Thiele di aprire alla Impulse! anche il canale del soul-jazz che in casa Lion sembrava funzionare a meraviglia. L’album è rilassato e spontaneo, mentre la coppia sembra portare avanti una conversazione musicale nel salotto di casa insieme ad alcuni ospiti di riguardo.

Nato a Pittsburgh, Stanley Turrentine era cresciuto in una famiglia di musicisti, suo padre, Thomas, era uno dei sassofonisti dei Savoy Sultans di Al Cooper, la madre suonava lo stride piano ed fratello maggiore, Tommy, la tromba. Il giovane sassofonista tenore, alla fine degli anni ’40 e ’50, iniziò ad esibirsi con vari gruppi R&B, stile che abbandonò dopo aver ascoltato Don Byas, Ben Webster, Lester Young e Coleman Hawkins. Decisivo, però, fu l’incontro con Max Roach, il quale lo introdusse definitivamente nel mondo del jazz. Shirley Scott era nata a Philadelphia, studiando tromba e pianoforte prima di passare all’organo Hammond ed iniziare a collaborare, alla fine degli anni ’50, con Eddie «Lockjaw» Davis. I due si sposarono nel 1961 divorziando nel 1971. Durante questi dieci anni il sodalizio divenne anche musicale, corroborato da una serie di album dal suono assai caratteristico che univa le sfumature melodiche in pronta consegna del sassofono di Turrentine intriso di soul con l’organo a presa rapida della Scott.

L’intero album scivola a mezza altezza senza incontrare il minimo attrito, senza momenti di cedimento o di noia. Il costrutto sonoro si dipana su un facile mid-tempo fatto di ballate standard, latin-shuffle e jazz samba, facendo ricorso ad alcuni rifacimenti come «On a Clear Day You Can See Forever» di Burton Lane e Alan Jay Lerner, «’Tain’t What You Do (It’s How You Do It)» di Sy Oliver e Trummy Young, «Sure As You’re Born» di Alan Bergman e Johnny Mandel e «Deep Purple» di Peter DeRose e Mitchell Parish, ma il piatto forte sono i tre originali firmati dallo stesso Turrentine, di cui la punta d’eccellenza è proprio la title-track, «Let It Go», insieme a «Ciao, Ciao» in odor di bossa nova e «Good Lookin’ Out».

Registrato dal 6 al 15 aprile 1966 al Van Gelder Studio, «Let It Go» non sfugge alla regola aurea del boogaloo e ad una collaudata armonia coniugale. Non fu un disco rivoluzionario, ma sicuramente uno tra i più riusciti del faraonico catalogo del sassofonista, incorniciato dall’organo di Shirley Scott, caratterizzato da un groove swinging-churchy e soulful, privo di riff nevrotici, quadrato negli assoli ed insanguato di blues. Tutti i brani sono di prima scelta, dotati di un’eccellente musicalità e di uno sviluppo melodico immediato, ma è la familiare interazione fra i coniugi Turrentine con i membri della band che rende l’album piacevole e fruibile al primo impatto. «Let It Go» rappresenta il prototipo di quel tipo di jazz destinato ai juke-box, alle feste pomeridiane in casa ed alla classe operaia di colore, che non aveva voglia di particolari complicazioni intellettualistiche ed implicazioni politiche. Mentre una parte di quell’universo «nero» amava ballare e distrarsi con i dischi di Stanley e consorte, la new thing alzava le barricate e metteva a soqquadro l’America del jazz.