GABOR SZABO QUINTET – «THE SORCERER», 1967
// di Francesco Cataldo Verrina //
C’era una strana eccitazione nell’aria quella notte del 14 aprile 1967 in Boylston Street. Il cartello esposto fuori dal Jazz Workshop annunciava: «Live Recording Tonite!». All’interno del locale, la troupe della Impulse! Records metteva a punto gli ultimi dettagli tecnici per fissare su nastro l’esibizione del Gabor Szabo Quintet. I cavi uscivano dalla porta, dirigendosi verso un furgone parcheggiato di fronte, dove il produttore Bob Thiele sedeva al mixer. Se tutto fosse andato come previsto, dalla sessione sarebbe uscita la prima registrazione dal vivo del chitarrista ungherese, destinata a diventare il suo quarto album per l’etichetta.
Thiele era consapevole dei cambiamenti che, a metà degli anni ’60, stavano investendo la scena musicale. In quel periodo la Impulse! lavorava per costruire un ponte tra il jazz e il rock, ed in Gabor Szabo trovò un artista crossover ideale, dalle impeccabili credenziali jazz, ma capace di spaziare tra soul, pop ed atmosfere latine. «The Sorcerer» venne così registrato in due notti durante la primavera del ’67 al Boston Jazz Workshop. Durante quelle performance, la band di Szabo riscosse un discreto successo, tanto da ottenere la conferma di un ritorno al Jazz Workshop con un nuovo ingaggio che verrà onorato cinque mesi dopo. Il Boston After Dark scrisse: «Szabo oscilla con grazia, senza essere mai eccessivo. La sua musica è attualissima e riflette ciò che sta accadendo in questi giorni. Vedetelo, ascoltatelo e dimenticate la sua apparente impostazione come chitarrista jazz. Fa ottima musica». Ascoltando il disco, la prima sensazione che si percepisce è quella di un jazz leggero in levare, imperniato sulla chitarra con alcuni accenni di fusion, influenze latine qua e là e qualche riferimento all’indian-raga. «The Sorcerer» (letteralmente lo stregone) è uno di quegli album di fine anni ’60 che mostrano l’altra faccia della Impulse!, quella meno conosciuta, dato che la galassia Coltrane tendeva a mettere in ombra tutto il resto.
Gabor Szabo era cresciuto a Budapest con la musica degli zingari. Colpito dall’abilità di Roy Rogers, che aveva visto in un film, decise di studiare la chitarra, dimenticando subito i cow-boys dopo aver sentito il jazz a The Voice Of America. Fuggito dall’Ungheria comunista nel 1956, approdò negli USA come rifugiato politico. Nel 1958 giunse a Los Angels per studiare alla Berklee, iniziando svariate collaborazioni. Nel 1962 si unì al gruppo del batterista Chico Hamilton, musicista molto influente nei primi anni ’60, da alcuni considerato l’analogo della costa occidentale dei Jazz Messengers di Art Blakey. Szabo rimase per tre anni con Hamilton a fasi alterne, quindi collaborò con Gary McFarland, fino a quando nel 1966 non diede vita ad una formazione tutta sua insieme a Charles Lloyd, suo compagno nella band di Hamilton.
Szabo ascoltava di tutto, inserendo vari stili nel suo repertorio: la musica della nativa Ungheria con i suoi echi di jazz gitano, il rock, elementi spagnoli e samba brasiliano; perfino la musica indiana che, in quegli anni, si stava facendo largo in Occidente. Tutto ciò lo portò ad ottenere una prodigiosa tecnica chitarristica, basata su una veloce esecuzione ed un attacco implacabile costruito su linee di note singole sferrate con precisione. Nel 1966 il chitarrista ungherese registrò un paio di album per la Impulse!, «Gypsy ’66» e «Spellbinder». Il primo fu una rivelazione, tanto che lo storico Ashley Kahn, in «The House That Trane Built», descrisse «Gypsy ’66» come «il primo titolo dell’etichetta ad appoggiarsi pesantemente sul materiale rock o pop del momento, con quattro cover di brani dei Beatles e di Burt Bacharach“. Con «Spellbinder» continuò adottando il medesimo schema. C’erano standard jazz come «Witchcraft» e «My Foolish Heart», ma anche una ballata pop, «It Was A Very Good Year”, ed un brano rock di Sonny & Cher. «Bang, Bang». Szabo contribuì all’album con una sua composizione, «Gypsy», ripresa in seguito da Carlos Santana.
Per la registrazione di «The Sorcerer», Gabor arrivò al Jazz Workshop nell’aprile 1967 senza pianoforte né fiati. Con lui c’erano Jimmy Stewart, un secondo chitarrista di formazione classica, il bassista Louis Kabok, amico dai tempi di Budapest, Marty Morrell alla batteria e Hal Gordon alle percussioni. I brani scelti dalle registrazioni effettuate nelle due serate furono «The Beat Goes On» di Sonny Bono, «What Is This Thing Called Love?» di Cole Porter, gli originali di Szabo, «Comin’ Back» «Space» e «Mizrab», ispirati a musiche ungheresi e indiane, «Lou-ise» firmata da Jimmy Stewart, «Little Boat (O barquinho)» e «Stronger Than Us» scritta da Francis Lai e Pierre Barouh e tratta dal film «Un uomo, una donna». «The Sorcerer» uscì nel mese di agosto di quell’anno, ma nel 1968 la Impulse! pubblicò altro materiale proveniente dal Jazz Workshop su «More Sorcery» che includeva anche «People» registrata sul palco di Broadway , «Los Matadoros» e «Corcovado».
Il modo di suonare è costantemente ispirato e l’interazione all’interno del gruppo è qualcosa di tangibile anche quando vengono eseguiti brani più leggeri come «The Beat Goes On», delicatamente jazzly con aromi latini. «Lou-ise» scava più a fondo dal punto di vista ritmico-armonico, aggiungendo corse abbaglianti sulle corde che attingono al folk ed al gypsy jazz. «Little Boat (O barquinho)» mette in luce l’eclettismo del chitarrista a suon di bossa-nova in salsa di congas.
Sulla B-side, il feedback della chitarra elettrica, nell’intro dei quasi sette minuti di «Space», sviluppa una leggera tensione psychedelica. «Stronger Than Us» rappresenta una quiete dopo una tempesta di note, distendendosi su un tappeto di delicate armonie. Con «Mizrab» (dal nome del percussionista che aveva suonato con Gabor negli album precedenti) ritorna un’ipnotizzante atmosfera raga, che scruta verso paesaggi sonori rock oriented. La rivista Jazz & Pop recensì «The Sorcerer» nel maggio 1968, con John Szwed che ne apprezzò le melodie, parlando di «musica di considerevole grazia e libertà». Harvey Siders, nell’aprile dello stesso anno, diede all’album quattro stelle su DownBeat, mentre l’interplay tra Szabo e Stewart in «What Is This Thing Called Love?» ricevette un elogio speciale, del tutto meritato.
