CECIL TAYLOR – «SILENT TONGUES», 1974
// di Francesco Cataldo Verrina //
Se Ornette e Cherry rappresentano l’altra faccia della luna o l’estremità accessibile del parenchima free jazz, il pianista Cecil Taylor ne raffigura esattamente l’opposto, ossia il rovescio della medaglia. Pubblicato originariamente nel 1974, «Silent Tongues» cattura il famoso set in solitaria di Taylor al Montreux Jazz Festival, con il debutto della omonima suite in cinque movimenti: «Abyss (First Movement)/Petals & Filaments (Second Movement)/Jitney (Third Movement)».
Cecil Taylor sembra avere un milione di pensieri in testa, un mucchio di note e di idee da riversare nel costrutto sonoro, che inizialmente sembra erigere un muro instabile, tra lui e gli astanti, in procinto di crollare all’improvviso, ma presto l’impianto strutturale si cementifica e trova fondamenta e radici profonde nell’humus creativo del pianista. Si apre quindi una vetrina ed inizia lentamente, languidamente, una costruzione a velocità progressiva, un turbinio di note che sembrano provenire da tutte le direzioni, mentre l’estroso pianista salta rapidamente da un passaggio lirico, quindi più lento, ad uno più ritmico e veloce, infine le due mani iniziano a battere sui tasti facendo zampillare fiotti di accordi a getto continuo. Il risultato è surreale: è come se Taylor fosse un giocatore ubiquo capace di trovarsi in più parti del campo e coprire più spazi contemporaneamente.
L’apertura di quasi diciannove minuti si sostanzia come il riassunto e la summa dell’approccio tayloriano al free form: corse frenetiche su e giù per la tastiera in barba alla chiave o alle relazioni tra ritmo e armonia, un approccio melodico che sembra provenire da una terza dimensione, molto aliena e poco familiare, alimentata da improbabili raffiche di accordi che sostengono e legano l’intero costrutto sonoro. È un tour-de-force di creatività vorticosa e dematerializzata che contiene quel minimo di struttura compositiva, senza dubbio un retaggio della formazione classica del pianista, che gli impedisce di colpire i timpani del fruitore come un raid aereo. «Crossing», diviso in due parti, mantiene le scale marziane dei demoni della velocità, ma aggiunge una sottile parvenza di groove, il quale induce a pensare che il brano possa trasformarsi, da un momento all’altro, in qualcosa di ballabile.
In «After All», che incorpora una citazione da «Jitney», il pianista fa ampio ampio uso dello spazio bianco e di aria ferma, dando all’intelaiatura sonora ed al pubblico la possibilità di respirare tra una valanga di suoni e l’altra. Taylor suona essenzialmente il piano come se fosse una batteria, creando idee atonali e suoni percussivi, dissonanti e fragorosi che diventano progressivamente ultraterreni e carichi di una quantità impressionante di energia.
Man mano che Taylor procede il suono s’infittisce tra gli applausi di un pubblico assai compiaciuto, mentre la corsa sembra inarrestabile, solo qualche breve pausa. Alla fine, gli applausi aumentano e Taylor ritorna con brevi bis dei due movimenti principali, «Jitney» ed «After All». I bis sono meritati, il pubblico è entusiasta, ma esausto come chi ha fatto un lungo viaggio in aereo, osservando splenditi paesaggi, fra turbolenze e capricci atmosferici.
In termini musicali, il risultato finale sembrerebbe più un case-study o una lectio magistralis di livello universitario che un banale punto di ingresso nel gorgo del free jazz. L’adattamento non è facile, ma una volta che l’acclimatazione è avvenuta, si viene magicamente risucchiati nelle spire sonore di Taylor e l’effetto può essere fortemente appagante, specie per l’ascoltatore a caccia di sensazioni non convenzionali.
