// di Francesco Cataldo Verrina //
Frank Gordon Sextet – «Clarion Echoes», 1985
La tromba ha una sua particolare gamma di dinamiche espressive, trame e inflessioni rispetto, per esempio, ad un sax. Ecco perché i dischi dei trombettisti dove è presente uno o più sassofoni, solitamente hanno lasciato un segno nella storia: molta della produzione di Miles Davis ne è una conferma, ma lo sapevano bene anche Kenny Dorham, Lee Morgan, Freddie Hubbard, ed altri illustri musicisti che hanno fatto la storia del jazz moderno; più recentemente, perfino Wynton Marsalis.
Frank Gordon, trombettista per lo più sconosciuto alle cronache jazz, ma dalle ottime potenzialità, ne era ben consapevole quando decise di mettere insieme questo solido sestetto per «Clarion Echoes», il suo album di debutto per l’etichetta italiana Soul Note. Registrato al Classic Sound Studio di New York, il 5 ed il 10 giugno del 1985, il disco ha tutte le credenziali per inserirsi su una sorta di linea di continuum che dall’hard-bop degli anni ’50 si dipana fino ai decenni successivi, attraverso gli aspetti mutevoli e cangianti del cosiddetto post-bop. Oltre a Frank Gordon alla tromba, al set parteciparono Bobby Watson sax contralto, Ari Brown sax tenore, James Williams pianoforte, Rufus Reid contrabbasso, Carl Allen batteria. Pur mantenendosi nel solco della tradizione, l’album non disdegna taluni approcci legati alle avanguardie, almeno nell’impostazione stilistica e formale, soprattutto per il taglio esecutivo del band-leader, a volte irregolare ed imprevedibile, altre foriero, specie sulle ballate, di un tono crepuscolare ed autunnale, dove il patos dello strumento raggiunge vette elevatissime.
A fargli da contraltare e ad espandere la gamma tonale delle sue creature sonore, il sax contralto di un gregario di lusso come Bobby Watson, supportato dal tenore di Ari Brown. Tutte le composizioni, sei su sette, sono firmate dal band-leader, ad eccezione della toccante versione di «I Remember Clifford Brown» di Benny Golson. L’inizio con «Take Off» è subito convincente, tanto da indurre chiunque a proseguire l’ascolto. Lo start è fulminante hard-bop, fatto di linee irregolari e contrasti che stimolano la progressione e lo scambio fra i tre strumenti a fiato, mentre la sezione ritmica, lavora ai fianchi con passo sostenuto. Dopo l’omaggio a Brown in cui i principali anfitrioni sono la tromba di Gordon ed il piano di James Williams, «Libra» s’immola sull’altare del soul-jazz, con linee potenti, discontinue ed innervate di funk. «Illusion», che chiude la prima facciata, è una breve digressione sotterranea.
La B-Side si apre con «Convulsion», brano che segue un procedimento simile al precedente «Libra», ma con un incedere meno irruento e più spaziato, dove la tromba del leader apre ai sidemen, i quali si susseguono a turno. Dopo un interlocutorio assolo di piano, il contralto di Bobby Wotson porta l’ensemble sul tetto del mondo, dal canto suo il bassista Rufus Reid prepara il terreno al tenore di Ari Brown, il quale chiude i giochi. La title-track, «Clarion Echoes» cala l’album in una dimensione onirica, riproducendo delle sonorità quasi arcane e sfuggenti. Sul finale, uno dei momenti più riusciti con «El Toro» che trasfonde qualche goccia di sangue ispanico, mente i fiati tagliano l’aria con riffs veloci e declamatori, quasi ad annunciare e poi descrivere una scena cinematografica modello «sangre y arena».

Bobby Shew Quartet – «Breakfast Wine», 1985
«Breakfast Wine» del Bobby Shew Quartet è un disco sconosciuto perfino a critici e gli esperti, anche coloro che si definiscono dotti e sapienti, molto raro, fortunatamente rimesso in circolazione. Ciononostante l’album, pubblicato in vinile nel 1985 dalla californiana PAUSA Records, non solo è un punto culminante della carriera discografica di Shew, ma detiene un posto di rilievo fra le innumerevoli pubblicazioni jazz degli ultimi quindici anni del ventesimo secolo. La sezione ritmica di Shew, trombettista e flicornista di talento, comprende il batterista Sherman Ferguson, il pianista Makoto Ozone e il bassista John Patitucci. Ozone e Patitucci erano poco più che ventenni, ancora sulla rampa di lancio delle loro future carriere. I due rampolli condivisero con Bobby Shew l’entusiasmo che si era riacceso in lui dopo aver deciso di abbandonare la carriera di trombettista-gregario con Woody Herman, Buddy Rich e altre grandi band, e soprattutto di affrancarsi dagli studi hollywoodiani in cui aveva trascorso centinaia di ore lavorative e lucrative nella realizzazione di musiche per il cinema.
Seguendo le regole d’ingaggio del classico stile West Coast, adattato ad un jazz molto raffinato anni ’80, la band rivitalizza «Waltz For Bill Evans» di Lyle Mays quale omaggio al musicista più amato da Shew, mentre «Shew-In», scritta da Makoto Ozone con un’ottima stesura soul-jazz, rappresenta un tributo ai grandi del passato, Art Blakley, Horace Silver e Blue Mitchell. Il quartetto si cimenta anche in tre ottimi standard: «Alone Together», scritta nel 1932 da Arthur Schwartz e facente parte di un vecchio musical, qui viene riproposta in una doppia sezione a 14 bars, anziché le usuali 16; «Softly As In Morning Sunrise», composta nel 1928 da Sigmund Rosemberg per il film «Blue Moon», risulta arrangiata in chiave minore e trasformata in un suadente swing midrange; «I Waites For You» e un brano poco praticato di Dizzy Gillespie risalente al 1940, uno strisciante blues dall’andamento notturno, dove tromba e pianoforte fanno da cornice ad un languido mondo sotterraneo.
Il pezzo migliore dell’album è senza tema di smentita la title-track, l’intrigante «Breakfast Wine» di Randy Aldcroft che, grazie alla convincente versione di Bobby Shew, si è fatto strada nel repertorio di molti musicisti, divenendo un piccolo classico. «Dopo tutti i Woody e Mork e Mindys» – raccontò Bobby Shew all’uscita dell’album – «mi resi conto che non stavo facendo ciò che faceva proprio venire la pelle d’oca e che regalava brividi ed emozioni, soprattutto a me stesso. Così ho buttato tutto all’aria, e mi sono messo a suonare jazz nei club, tenendo, inoltre, lezioni per musicisti e studenti per circa 200 giorni all’anno. Non realizzo la quantità di soldi che ho guadagnato come musicista da studio, ma io amo tutto ciò che faccio, forse è un’eccentricità auto-inflitta. Comunque ho scoperto che funziona non solo in senso artistico, ma anche in senso commerciale. Sto facendo ciò che amo e la vita è piacevole». E questo, in sostanza, è ciò che Shew ha fatto, da allora, per un quarto di secolo, registrando più di due dozzine di album come leader, ma «Breakfast Wine» detiene un posto speciale nella sua produzione, vuoi per un nuovo senso di scoperta nel suo modo di suonare, vuoi per la freschezza degli emergenti Ozone e Patitucci e, non ultima, l’ottima sintonia dell’ensemble. Per tutto il tempo del disco, Shew sembra un homo novus, quasi rivitalizzato dall’inedito percorso artistico, mostrandosi al massimo della forma, soprattutto l’interazione tra la sua tromba ed il pianoforte di Ozone raggiunge momenti di eccellenza tecnica e creativa.

Claudio Fasoli, Kenny Wheeler, J.F. Jenny Clark & Daniel Humair – «Welcome», 1986
Registrato al Barigozzi Studio di Milano il 26 marzo del 1986, «Welcome» si basa su otto composizioni originali di Claudio Fasoli, sassofonista veneziano venuto alla ribalta negli anni ’70 quando iniziò a far parte del Perigeo, assieme a Franco D’Andrea e Giovanni Tommaso. Oggi ottantenne, ma molto attivo, continua a mantenere viva la fiamma creativa in perfetto equilibrio tra classicità e modernità. Il disco in oggetto è una sorta di progetto inter pares, in cui Fasoli sposa la sua causa a quella del trombettista e flicornista Kenny Wheeler, del batterista Daniel Humair e del bassista Jean-Francois Jenny Clark. Come scrive Nat Hentoff tra le note di copertina: «Quello che Fasoli e i suoi colleghi fanno in di questa sessione riporta alle loro radici radici. Un sorta di chi siamo e di che cosa abbiamo vissuto».
L’album affonda le radici in una sorta di post-bop a tinte soul dai movimenti trasversali ed imprevedibili, che in quegli anni era divenuto la lingua internazionale, sia per i musicisti che per gli appassionati. Sarebbe riduttivo parlare di free-jazz, poiché lascerebbe presupporre una sorta di delirio incontrollato; per contro le improvvisazioni, anche quelle più oblique sono caratterizzate da una perfetta ricercatezza lirica, da un ottima quadratura melodica e da un approccio compositivo che valorizza sia la concretezza che l’atonalità in una logica prettamente compositiva e legata alla partitura.
Lo spirito beffardo di Albert Ayler sembra aleggiare nell’aria, soprattutto quando il sassofonista si spinge il registro del suo strumento verso altezze siderali, ma senza i caroselli circensi e claxonati; così il fantasma di Ornette Coleman e quello di Don Cherry sembrano fare da eco agli scambi fra la tromba di Kenny Wheeler e il sax di Claudio Fasoli. Un ascolto più attento ed uno scandaglio più profondo mettono in rilievo le assonanze fra Fasoli ed il Wayne Shorter più sperimentale, in particolare in «Zen» ed «Empitiness» sicuramente le due tracce più riuscite dell’album, a cui fanno da contraltare le ornettiane «Oblivion» e «Invisible Sound». «Welcome è un album ben suonato e di forte spessore creativo.

Baikida Carroll – “Shadows & Reflections”, 1982
Il trombettista Baikida Carroll in sodalizio con altoista Julius Hemphill ci offre un esempio della sua tempra e della sua vaglia in quello che rimane il suo miglior album come band-leader. Registrato nel 1982, “Shadows & Reflections” è un album assolutamente maistream che riporta alla mente certe soluzioni tipiche del periodo aureo della Blue Note di vent’anni prima. Pubblicato dall’italiana Soul Note e registrato all’House Sound Studio di New York, si distanzia da quelle che erano le emissioni tipiche dell’etichetta milanese in quel periodo. Soprattutto la timbrica e la qualità sonora sono superiori al classico materiale, sia pure pregevole, che usciva dalla Studio Barigozzi.
L’humus sonoro che si respira all’interno dell’album è decisamente americano. Nel jazz i fattori ambientali sono determinanti e sovente la forma è anche la sostanza. Attraverso 5 sapienti composizioni originali, il trombettista fa un omaggio alle sue radici a qualle influenze che hanno caratterizzato tutti i musicisti afro-americani nella loro evoluzione. Già dalla prima traccia “Kiki” si avverte che il tributo da pagare ai Jazz Messengers, al netto di una componente ritmica più attenuata, è notevole. “Suhi Sundance Lake” riporta la mente il Miles Davis del periodo Prestige con una ballata dal soffio leggero e spaziato, introdotta da una lunga progressione pianistica. “In Left Jab” si materializza il fantasma di Horace Silver, non tanto nel modo d’interpretare la partitura, tromba e sassofono tentano qualche contenuta angolatura, ma nella struttura e nella progressione del brano. Oltre ad un bel sentire, c’è comunque un piacevole risentire. Insieme al sassofonista Julius Hemphill, Baikida Carroll trova sostegno nel pianista Anthony Davis, nel bassista Dave Holland e nell batterista Pheeroan Ak Laff. Come già accennato, tutto il suona come se fosse una registrazione tardiva di Blue Note, in cui i fiati riportato alla mente rapidi flashback delle performaces di Jackie McLean e Charles Tolliver, a volte anche Lee Morgan, una delle principali influenze del band-leader.
La seconda facciata si apre con “Pyramids”, il brano più riuscito dell’album, un lungo viaggio di oltre 10 minuti nella storia del hard-bop in formato post con il sax di Julius Hemphill che volteggia con enfasi coltreiana, mentre la tromba di Baikida Carroll lo insegue, tentando il sorpasso in velocità più che in dissonanza. Quando arriva il suo turno, il pianista Anthony Davis sembra avere quattro mani, spinto da una rotolante retroguardia ritmica, in particolare il basso di Dave Holland sembra creare delle onde concentriche. “At Roy” è un ruzzolone soul-funk, che riporta alla mente i vecchi Messengers con Horace Silver, dove tutto e regolare e nella norma, perfino il sax sembra essere giunto a più miti consigli, mentre la tromba gioca ancora pensando a Lee Morgan. “Shadows & Reflections” è un album di jazz in purezza dal sapore retrò, distillato da un manipolo di sopraffini musicisti con credenziali d’avanguardia. Qualità sonora superlativa per l’orecchio degli audiofili. Irrinunciabile!!!
