// di Francesco Cataldo Verrina //
Un breve racconto di Franco Cerri.
«Eravamo e siamo rimasti diversi» raccontava Cerri parlando di Intra, «io sono tonale. Già il be-bop, al primo incontro, mi aveva un po’ frastornato. Figuriamoci il free, un altro mondo. C’era stato un concerto al Lirico, il gruppo di Miles Davis con John Coltrane al sassofono e gli appassionati milanesi si erano divisi. Alcuni ne erano usciti entusiasti, altri poco convinti. Io capivo che si trattava di musica di altissima qualità ma facevo fatica a digerirla, avevo bisogno di tempo. Enrico, invece, assorbiva tutto, si sentiva a suo agio in tutto ciò che ci arrivava di nuovo, come accadeva ad Enrico Rava, a Massimo Urbani, a Giorgio Gaslini e ad altri ancora. Io faccio musica come se scrivessi un racconto, ho bisogno di seguire una certa logica, il free spezza ogni cosa, sconvolge i temi, li disperde in tante schegge; un’operazione molto intellettuale, nella quale non mi ritrovavo. Ciononostante, o forse proprio per questo, le nostre due nature riuscivano a conciliarsi. Sentivo che Enrico a volte doveva tenere a freno la fantasia, così come io cercavo di adeguarmi, mi sentivo demodé e volevo allargare il mio panorama. Eppure le nostre due nature finivano per conciliarsi. E più avanti nel tempo avevamo formato un Quartetto, con Azzolini al basso e Gilberto Cuppini alla batteria, che dura ancora, sia pure cambiando a volte basso e batteria, Lucio Terzano e poi Marco Vaggi, Paolo Pellegatti e Tony Arco. Una sera Cuppini non era arrivato a Lecce. Avevamo pensato di far saltare l’esibizione, poi Enrico aveva detto: suoniamo in Trio, come Art Tatum, come Oscar Peterson e ci eravamo resi conto che anche così la musica funzionava»
Enrico Intra Trio – “Jazz In Studio”, 1962
Per molti critici, ai quali mi associo, questo sarebbe l’album più riuscito della lunga carriera di Enrico Intra (ancora in attività, soprattutto come docente), di certo è una delle pietre miliari del jazz italiano degli anni Sessanta. Il disco fu il frutto di cinque mesi di duro lavoro in studio, ma anche di prove, riascolti e sacrifici, come raccontò lo stesso Enrico Intra, all’indomani della sua pubblicazione: «Non voglio considerarlo un obiettivo. Mi sento come uno che sta sta andando verso la direzione giusta e io spero che il mio prossimo lavoro sia un’ulteriore conferma dello sforzo, della serietà e della vera passione che ho messo nella mia musica».
Nel 1962, Enrico Intra aveva 27 anni, il pianista milanese era ad una specie di bivio, avendo la necessità fissare dei punti di ancoraggio ben precisi nella sua brillante ma discontinua carriera. Gli organi d’informazione avevano cominciato ad occuparsi di lui circa sette prima, durante un evento jazz al Teatro Manzoni di Milano nel novembre ’55. In quell’occasione pubblico e critica, sebbene attratti dalle vedettes mondiali in cartellone, iniziarono ad interessarsi alla musica di un quintetto fantasma che suonava dietro le tende tra uno set e l’altro. Il mistero fu presto svelato e il X Quintet (questo il nome dato a quella ghost-band) venne allo scoperto ottenendo una meritata ovazione. La formazione era guidata da un giovane pianista che rispolverava una serie di vecchi standard, a cui ridava nuova linfa vitale, riproponendoli in maniera non convenzionale, sicuramente non manieristica e prevedibile.
Considerando la precarietà della scena italiana di quel periodo, Enrico Intra fece immediatamente breccia sull’audience grazie alla sua capacita di giocare con il lo swing e di muoversi su territori da molti ancora inesplorati. Il giovane pianista aveva fatto capolino sulla scena jazz nei primissimi anni ’50, usando lo pseudonimo di L’Ester Freeman, che nasceva dalla fusione del nome del sassofonista Lester Young e del cognome del pianista Russ Freeman. Già nel 1952 la la rivista francese Hot jazz, nell’annuale referendum, lo aveva segnalato tra gli emergenti, però il bagno di folla ci fu solo nel 1957 in occasione dello storico Festival Jazz di Sanremo, organizzato da Arrigo Polillo e Pino Maffei. Durante la seconda edizione della Kermesse Sanremese, di fronte ad un pubblico ed a una critica internazionale, il trio fu accolto come una vera rivelazione. Quella performance fu un unicum e non venne ripetuta durante la successiva edizione. Il pianista, che prestava servizio militare in Sardegna, usò una delle sue autorizzazioni per per poter suonare nella città dei fiori, ma non riuscì ad esprimere la stessa carica emotiva e la medesima abilità comunicativa dell’anno precedente. Al netto di ogni esibizione, Intra aveva sfondato il muro della diffidenza e si era aperto un varco nell’ambiente jazz di quegli anni, tanto da essere accolto nel circolo ristretto dei più quotati pianisti italiani: nel 1958, durante una serata alla Taverna di Milano, venne scelto per accompagnare al piano la mitica Billie Holiday.
Negli anni successivi il pianista manifestò non poche titubanze in merito alla strada da seguire: «Probabilmente ero immerso nella disperazione che colpisce quei pochi artisti italiani che non vogliono soddisfare le richieste del business musicale, ma quest’anno ha acquisito forza e convinzione è sono ritornato sulla scena jazz, ho sentito che no potevo fare a meno di suonare questa musica. «Jazz In Studio» del 1962 fu il primo vero album da lui prodotto. Un passo decisivo verso la maturità artistica, sulla scorta delle capacità messe in evidenza con i precedenti lavori. In questo disco il temperamento emotivo e musicale raggiunge il climax, grazie alla forte complicità degli altri due componenti del trio: Pupo De Luca, abile batterista, suo vero partner sin dal ’57 e il ventitreenne Paolo Solonia, il quale ebbe ruolo determinante durante le registrazioni, nonostante la giovane età.
Sette su dieci pezzi recano in calce la firma di Intra, che compone e suona con ispirata consapevolezza. Tutte le registrazioni sono intervallate da una breve presentazione del pianista. Fra le tante spiccano «Pittura», «John Lewis» e «Jazz classico». Il primo è un tema geniale che Intra aveva più volte eseguito dal vivo con il titolo «Il classico in Jazz», successivamente rielaborato sotto una sorta di influenza pittorica dopo aver incontrato, nel suo club ad Arenzano, il pittore francese Jean Paul Larufie. «John Lewis» rende omaggio al leader del Modern Jazz Quartet che, insieme a Bill Evans e Miles Davis, costituiva un punto di riferimento per Intra. Nel brano suddetto alcuni dei canoni musicali adottati da Lewis vengono proposti, usando, però, il gusto personale ed un evidente tipicizzazione. «Classic Jazz», che probabilmente è il pezzo più seduttivo dell’album, rivela l’anima romantica di Intra, la sua propensione verso quella liricità che costituisce da sempre il rovescio della medaglia di una personalità a volte più vivace e complessa. «Jazz In Studio» è un album che non dovrebbe mancare nella short-list di ogni vero appassionato di jazz.
EXTRA LARGE
Ecco cosa raccontava Enrico Intra in una vecchia intervista: «Tu sai che io sono un musicista di jazz a mezzo servizio con la musica leggera, come tanti altri, del resto, e come ce ne sono perfino in America. Cerco in qualche modo di vivere positivamente anche questa esperienza, di arricchire in qualche modo me stesso, per esempio quando ho a disposizione una grande orchestra. Bisognerebbe eliminare il mezzo servizio, ma come si fa? Ci vorranno ancora molti anni, forse non basterà una generazione. Oggi per vivere soltanto di jazz, specialmente in Italia, uno dovrebbe rassegnarsi ad una povertà francescana o vivere da solo a fare l’asceta. Certo, si può fare. Ma è una scelta dura, e succede che quando si è giovani certe cose non si capiscano. Può prevalere l’impulso naturale di non rimanere soli, di farsi una famiglia, e allora il mezzo servizio diventa inevitabile. Non puoi sacrificare gli altri».
