Greg Burk Expanding Trio – “Message In The Clouds”, 2020
// di Irma Sanders //
Greg Burk, definito “uno sperimentatore con la serena sicurezza del mainstreamer”, riesce ad essere con estrema naturalezza un raccordo tra gli archetipi del jazz tradizionale ed un moderato sperimentalismo, dove la sua elaborazione dei moduli espressi classici è costantemente diluita da visioni moderne e proiettate nel futuro. Originario di Detroit, Bruck ha scelto l’Italia come terra d’elezione, dove ricopre anche il ruolo di docente di pianoforte jazz ed Ear Training alla New York University di Firenze.
La carriera del pianista è costellata da una lunga scia di riconoscimenti e tournée mondiali, nonché importanti esperienze e collaborazioni con artisti ed etichette internazionali, che hanno aperto la strada alla creazione di “Message In The Clouds”, uno dei migliori album del 2020, pubblicato dalla Tonos Records, quasi una summa di tutto il vissuto precedente che riafferma, al contempo, la validità dell’Expanding Trio, dove a fianco di Burk si distinguono il bassista Stefano Senni ed il batterista Enzo Carpentieri, sezione ritmica dallo spiccata duttilità. L’affiatamento che i tre musicisti esprimono e la sinergica operatività che condividono risulta assai evidente in ogni passaggio dell’album, oltrepassando i confini della normale esecuzione o improvvisazione e rimodulando l’idea stessa del tipico piano trio.
L’opener è affidato alla title-track, “Message In The Clouds”, che mostra un assetto classico, ma punta le antenne verso un altrove più moderno, dove gli incastri sonori appaiono come una matrioska che svela progressivamente i segreti di una piacevole melodia in crescendo fatta di onde concentriche che avvolgono l’ascoltatore. Il racconto sonoro è espresso con decisione e mano sicura attraverso i tasti del piano e magnificato dal solidale afflato con la sezione ritmica. Mentre la progressione di Burk intesse la trama melodica, dalle retrovie basso e batteria garantiscono il giusto apporto ritmico-armonico. La coesione fra i compagni di viaggio è palpabile, la formula del trio è vincente, mentre uno stato di grazia pervade ogni cambio di passo. “Don’t Disappear” ha un umore più sotterraneo e procede con un passo felpato, mentre la narrazione appare più introspettiva, quasi come velata da un senso di mistero. “Afterimage” contiene uno spiritello dall’anima latineggiante ed un groove misto-funk, dove l’incedere percussivo del pianoforte sembra trarre linfa vitale dall’ottima retroguardia: il drive del basso, sostenuto dall’ottimo drumming, asseconda alla perfezione il crescendo del piano che emette fiotti di note zampillanti.
“Love Wins” è una ballata dal lirismo intenso, dove se tanto mi da tanto, l’amore ed i sentimenti diventano il centro nevralgico dell’ispirazione. Il piano, dapprima, è impetuoso nel volteggio, ma al cambio di passo la melodia procede in verticale, mentre l’apporto della retrovia risulta deciso, ma non invadente. A metà del percorso, il trio con unità d’intenti riscende in profondità con un simultaneo tocco dalle tinte poetiche ed avvolgenti. “Peace of Vanessa” si esalta in un costrutto melodico quasi cantabile che sfiora la perfezione, dove il tema è condiviso ma ravvivato a turno dai tre strumentisti: piano e contrabbasso si spostano a turno verso una differente angolazione, attraverso una divergenza parallela che conduce ad un convergente infinito, sempre sull’onda dell’emozionalità. “Jade Smile” ha un cromatismo brunito, quasi rarefatto, dove la melodia distillata dal piano si muove in punta di piedi, assumendo presto le sembianze di un ballata struggente e crepuscolare.
“Breaking The Limits” sfalda lo spazio e l’unità di tempo con una tempesta di note basse, che oltrepassano volutamente i limiti, quasi come in gioco d’azzardo. “Creature Comforts” è un midrange lanciato in verticale, dove la melodia e l’improvvisazione trovano un perfetto break-even-point soprattutto nel dinamismo strumentale dei tre sodali. “The Union” diventa quasi un manifesto programmatico, una dichiarazione unitaria all’interno di un progetto sonoro, dove il gioco dei ruoli risulta ben ripartito e contemplato da una comune finalità.
Così come nell’indole artistica di Greg Burk, l’album “Massage In The Clouds”, diciannovesimo capitolo discografico della sua carriera, mantiene un assetto legato ad un modernismo senza stravolgimenti radicali o fughe impossibili, caratterizzato da un saldo legame con la grande epopea del jazz straigth-ahead degli anni ’50 e ’60, alimentato da un’organicità stilistica non convenzionale.
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