// di Guido Michelone //
Ho conosciuto musicalmente Camille Bertault all’epoca del disco Pas de Géant (Okeh, 2018), ossia il secondo dei tre album finora pubblicati dalla splendida cantautrice parigina, all’epoca trentaduenne: è un CD che nel titolo contiene la traduzione letterale del celeberrimo original di John Coltrane, in mezzo a 16 brani variegati, spicca Là Où Tu Vas, appunto Giant Steps trasformato in prodigioso manifesto di canto libero. Interessanti anche i due lavori successivi: da un lato c’è Le Tigre (2020) dove Camille coniuga il vocalese all’elettronica; dall’altro il recentissimo Playground (2022), in duo David Helbock, in cui la jazz singer mette ancora più a nudo le eccellenti doti canore. In quest’intervista telefonica (mai tradotta, ma edita solo in lingua originale per una dispensa universitaria) del novembre 2021, la ‘ragazza’ è prodiga a raccontarsi.
Ciao, Camille. Prima di tutto, ti consideri una jazz girl?
Ma sì, inizialmente è stata la mia principale influenza, il jazz; certo, io vengo dal jazz, ho studiato jazz e poi ancora molto jazz, quindi sono principalmente una cantante jazz, ma il jazz è molto ampio o è difficile da definire e perciò penso di essere influenzata anche da altri stili attraverso la musica .
Come lavori assieme ai musicisti, con i quali abitualmente collabori?
È complicato risponderti, perché dipende dal tipo di progetto: se rientra nei miei progetti, prima lavoro da sola e provo, compongo, scrivo e poi arrivano musicisti con cui mi ritrovo un po’ da tutta Europa, jazzisti che conosco bene e cerco di testare anche ciò che ho scritto con loro o per loro e spesso mi danno nuove idee e mi dicono quali funzionano e quali no; poi mi piace anche quando vado in tour, se andiamo in America Latina o negli Stati Uniti per esempio, mi piace suonare sempre con persone diverse: così, è il mio modo di lavorare, di progredire.
Camille, raccontaci, se vuoi, la tua vita musicale, fin da bambina…
Lungo il mio percorso musicale ho imparato a suonare il pianoforte, mio padre mi ha insegnato il piano quando avevo quattro anni, quindi pianoforte classico al Conservatorio a otto anni, dove ho fatto anche coro, teoria musicale, canto lirico. Successivamente, a vent’anni, mi sono preso una pausa, ho smesso e sono tornata a studiare un po’ di più il sassofono jazz e in più il pianoforte jazz e il canto jazz e mi sono dedicata interamente al jazz: infatti è la musica che ascoltavo a casa, mio padre del resto era un pianista jazz. Insomma il jazz ha sempre fatto parte della mia vita.
Ma, il primo ricordo musicale di quando eri piccola?
Maurice Ravel! Imparo a suonare Ravel al pianoforte a quattro mani con mia madre e mio padre. Quindi, possiamo dire che questa è la mia prima vera esperienza. Quindi ricordo anche, da piccolina, di aver fatto un’audizione davanti ad altre persone, abbiamo fatto una specie di concerto. Mio padre mi faceva ascoltare i dischi quando ero piccola, Keith Jarrett… Eccolo… Ma devo confessarti che Maurice Ravel, non è niente male come primo ricordo.

Cos’è per te la musica, Camille?
È un mezzo espressivo che ti permette di dare la tua visione del mondo, senza dover necessariamente utilizzare un vocabolario comune, quindi attraverso i suoni e attraverso l’espressività; è un linguaggio, la musica è un linguaggio, è come una sfera magica di cristallo in cui non puoi esprimere cose che non puoi esprimere nella vita reale.
Vale la stessa cosa per il jazz?
Ma sì, il jazz è più o meno lo stesso per me, tranne per il fatto che il jazz è davvero una musica di libertà e una musica che è lì per trasformare l’errore in una risorsa, che è lì per trasformare il fallimento in una possibilità, in un potenziale. Ed è così che vedo il jazz, non ci sono più restrizioni, è un’apertura tra il possibile.
Quali sono i tuoi musicisti preferiti?
Nel jazz come nella musica classica e popolare ce ne sono tanti. Ho iniziato con Ravel, ovviamente amo Ravel, poi amo Charles Mingus, Thelonious Monk, Wayne Shorter, Bill Evans, Betty Carter, Carmen McRae, ma ovviamente ce ne sono molti altri. Molti, molti altri. Amo anche la musica brasiliana, amo João Bosco, amo Elis Regina, Nana Caimmi, Ovviamente Jobim. Ecco.
Il disco jazz più bello per te ?
Mi piace molto Ah Uhm di Charles Mingus. Per me è davvero la perfezione.
E riguarda all’altra musica?
Mi piace molto l’album Voz e suor di Nana Caimmi e Cesar Camargo Mariano
Cosa pensi del possibile rapporto tra musica e politica?
Ritengo che la politica sia qualcosa di molto ampio. In effetti, la politica è ovunque, anche nel jazz. Dal momento in cui c’è un rapporto con gli esseri umani, c’è la politica. Quindi la politica è ovunque. Quindi, non mi interessano i discorsi, mi interessa la comunicazione tra esseri umani, l’espressione. Ma non mi piace fare discorsi politici nei miei concerti.
Come vedi, da francese, la situazione del jazz nel tuo Paese?
Dipende, direi che c’è un piccolo problema con il jazz, riguarda ilo fatto che è piuttosto costoso… quindi i festival sono cari, il che rende difficile rendere accessibile questa musica, che, in più, è considerata, da molti giovani, come musica che non funziona più o come musica vecchia, non attuale. Non credo di aver provato questa sensazione in Italia o in Brasile, dove penso che tra il pubblico ci siano persone di tutte le età.
Ma è possibile imparare bene il jazz in Francia a livello professionale?
Per chi vuole studiare jazz, in Francia è tutto straordinario: ci sono ottimi conservatori, che sono facilmente aperti agli stranieri, anche agli studenti senza soldi, i quali possono studiare con i migliori insegnanti (spesso grandi jazzisti). Ecco perché a Parigi ci sono molti musicisti, molte jam session, molto di tutto quello che succede nel mondo. Penso che il jazz francese sia avviato a tornare alla grande e in maniera meno ingessata; ma ovviamente a livello di festival, non saprei; a me sembra invece che i jazz club sono più economici, ma non ne so molto. Penso comunque che in ogni epoca ci siano caratteristiche diverse, che rendano il jazz più o meno appetibile a grandi audience.
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