Alessandro Bertozzi – “Trait d’Union”, 2020

// di Francesco Cataldo Verrina //

L’Africa dal punto di vista sonoro merita la definizione di Grande Madre, quale patrimonio genetico ed ancestrale di tutte le culture musicali contemporanee di tipo ritmico, che gli Europei hanno appreso grazie al travaglio creativo degli Afro-Americani, inventori dei fenomeni musicali più importanti degli ultimi due secoli, come il blues, il jazz, il rock, il soul, il funk. In verità l’Africa è molto più vicina all’Italia di quanto si possa immaginare: tutte le culture musicali mediterranee sono infarcite di elementi ritmici e sonori provenienti dal “triangolo nero”. Molti artisti, nel corso dei decenni, pur operando in contesti differenti, hanno attinto all’Africa consapevolmente ed inconsapevolmente.

Così, Alessandro Bertozzi racconta la genesi del suo ultimo lavoro, che trova in quei luoghi linfa ed ispirazione creativa: “L’Africa mi ha sempre appassionato molto. I suoni, i colori e i ritmi tribali africani mi hanno sempre trasmesso delle forti emozioni. In questo disco ho provato ad unire queste cose con la musica che amo da sempre cioè il blues, il jazz, il funk. Il risultato è una sonorità particolare nella quale mi sento a mio agio, perché c’è un po’ tutto quello che mi piace e spero di riuscire a trasmettere a chi ascolta le stesse emozioni che dà a me. La musica deve unire le cose e le persone, non differenziarle, solitamente ci riesce più di tanti discorsi”. “Trait d’union”, per Alessandro Bertozzi, sassofonista di rango su contralto, tenore e soprano, diventa un’escursione ideale ed immaginaria nel continente africano, un’immersione profonda all’interno della natura, dei colori, i sapori, le voci e ritmi di quei popoli, fermenti vitali da trasfondere all’interno della propria creatività, tentando di raggiungere un equilibrio tra mondi solo apparentemente lontani.

Dice Bertozzi: Questo album è nato perché sono stanco del clima d’odio che si è creato tra persone di cultura differente, spiega l’artista, io faccio qualcosa con la musica per lenire questo sentimento. Le sensazioni musicali non discriminano né colore né razza”. In realtà la scelta di brevi testi in wolof che accompagnano i singoli brani hanno un evidente significato, ossia la vita ha un senso solo se vissuta serenamente. A tal proposito, Alessandro Bertozzi e Level49 sostengono il progetto Planete Zero Senegal, un segnale distensione, rispetto al clima di odio razziale e di luoghi comuni nei confronti di quanti giungono da quelle terre lontane. Talvolta la non conoscenza determina la paura nei confronti del “diverso”, mentre la musica riesce a superare barriere e steccati più di qualsiasi teoria o dottrina politica.

Per questo settimo capitolo della sua attività discografica su etichetta Level 49, Alessandro Bertozzi si avvale di un valido line-up: Andrea Pollione tastiere, Alex Carreri basso, Pap Yeri Samb voce, Maxx Furian batteria ed Ernesto Da Silva percussioni. Analizzato nella sostanza ritmo-armonica, “Trait d’union” si caratterizza come un ottimo costrutto sonoro che utilizza vari moduli espressivi provenienti dalla tradizione afro-americana, connessi attraverso una sorta di cordone ombelicale con la “Grande Madre”. Un perfetto lavoro di sintesi narrato con il linguaggio del jazz contemporaneo arricchito di elementi molteplici.

L’opener, “Giula” è già una dichiarazione d’intenti: dopo un’introduzione quasi ambient si srotola su un energico afro-funk dai tratti taglienti e dai contorni metropolitani, smorzati da piacevoli progressioni pianistiche e da un canto ancestrale ricco di pathos, ricamato da riff di sassofono e da un gioco percussivo assai coinvolgente. L’arrivo di “Samaway”, quasi senza soluzione di continuità, dopo un intro di percussioni e voce, sfocia subito in una sorta di happening collettiva annunciata dal sassofono di Bertozzi sostenuto magnificamente da tutta la retroguardia ritmica. “Kalmte” si sostanzia come una ballata dai tratti arabescati con un contrappunto ritmico che riporta alla mente paesaggi mozzafiato e terre lontane, in un crescendo di suggestioni innescate da un sax che procede disegnando ampie e ripetute onde sonore.

“Sauf” si muove su un tracciato ritmico, dove voce e sassofono dialogano attraverso un call-and-response fatto di contrasti, quasi a volere costruire un amalgama tra suoni ancestrali ed atmosfere urbane insanguate di soul-funk. “Regut Pad” è un vigoroso post-bop imperniato su una melodia a presa rapida, diluita da contrappunti esotici. “Tuba” parla ancora con la voce dell’Africa, attraverso un canto fatto di sofferenza e di speranza, mentre l’impianto ritmico e narrativo, quasi fusion, proietta la musica in una dimensione molto più Nord-Occidentale. “Jambar” è un gioiellino di afro-jazz-funk in purezza dal movimento flautato e dai piacevoli contrafforti ritmici. “Melodies Beweging” ha i tratti somatici di un mid-range basato su molti elementi di fusione, un crogiolo di razze sonore meticce ed incrociate che sfociano in un finale afro-latino.

In un’epoca di scarsa sintassi jazzistica, che spesso ne mortifica l’originaria componete africana, a tutto vantaggio di rarefatte atmosfere classicheggianti, nordiche e surreali, “Trait d’Union” di Alessandro Bertozzi è una vera manna dal cielo, che restituisce al jazz contemporaneo un legame con la sua più autentica matrice: l’Africa.

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