// di Bounty MIller //
PREAMBOLO:
Molti anni fa, all’inizio degli anni 2000, il ritorno del vinile non era ancora neppure in embrione, trovai questo disco su una bancarella per due euro. Trattasi di una stampa originale anni ’60 della Pacifi Jazz. Inizialmente, fui attratto soprattutto dalla parola Jazz e dal nome in evidenza, ossia Roland Kirk. Portato a casa lo ascoltai in fretta e furia, quindi lo riposi in uno scaffale della mia libreria e lì rimase per lungo tempo, in una sorta di limbo, insieme ad altri vinili che mi ero ripromesso di approfondire. Dopo qualche anno, cercai di capire che cosa fosse questo The Jazz Corps, partendo con l’idea sbagliata che si trattasse una band legata all’esercito, che di tanto in tanto si pregiava della partecipazione di qualche headliners come Roland Kirk, ma i dati reali raccolti smentirono le mie supposizioni.
THE JAZZ CORPS – “THE JAZZ CORPS FEAT. ROLAND KIRK”, 1966
Spesso critici ed analisti, a proposito di jazz, partono dal cliché che sulla costa occidentale degli States tutti suonassero come Chet Baker e Gerry Mulligan e che facessero a gara per essere “fighi” e romanticoni”, calando le loro performance in con un’atmosfera più rilassata ed ammiccante. Chi mi legge da tempo, sa che io non ho mai creduto in questa divisione manichea tra jazz del West e jazz dell’East, anche perché in ambito musicale vige il cosiddetto principio dei vasi comunicanti e poi perché, anche la costa occidentale era molto aperta alle idee progressiste di Ornette Coleman, Don Cherry, piuttosto che di John Coltrane, che talvolta erano più gradite a Los Angeles che a New York. Ad Ovest venivano facilmente recepite istanze sonore ed influenze da tutto il mondo, in particolare dall’Asia e dall’America Latina.
Questo album ne è un dimostrazione lampante, caratterizzandosi come una sorta di progressione modale a volo libero, ma con una componente melodica assai evidente e una strumentazione tutt’altro che minimale, una sorta di jam che fa da laboratorio aperto all’incontro fra il Jazz Corps di Tommy Peltier ed il loro ospite d’eccezione, un estroverso, e quanto mai brillante Roland Kirk, il quale suona anche il sax baritono in metà album, in quelle che sono le tracce migliori (documento raro, lo farà poche altre volte in studio). Il suo modo di approcciare al baritono è da manuale, raggiungendo profondità abissali. Sembrerebbe voler distanziare perfino Gerry Mulligan di molte di lunghezze e di molti chili, se il peso della sonorità potesse misurarsi con una bilancia. Per contro, in taluni frangenti, sembra un bulldozer trascinato da una folle multifonia. Persino al flauto riesce a raggiungere il climax, finanche nell’incredibile duetto con Freddy Rodriguez. Peltier e il suo Jazz Corps erano un punto fermo nelle jam-sessions territoriali dalle parti del faro di Hermosa Beach in California.
Spesso Tommy e il suo gruppo si aprivano al confronto e alla collaborazione con vari personaggi di prima linea come Cannonball Adderly e Yusef Lateef, che offrivano al Corpo l’opportunità di sottrarsi al quieto anonimato locale. Nello specifico, la possibilità di fissare una data di registrazione con Roland Kirk, rappresentò per loro un piccolo passaporto per incrociare la strada della storia del jazz. La risultante di questo incontro fu “The Jazz Corps /Featuring Roland Kirk” un disco solido, irripetibile, un unicum nel suo genere. Roland non solo mise insieme le sue spettacolari abilità da solista nel mix di strumenti, tenore, baritono, alto, flauto, menzello e stritch, ma avere un uomo a bordo capace di suonare più strumenti a fiato, diede al Corps maggiore capacità espressiva, tra cui una linea frontale con tre solisti, in grado di colorare il suono e la melodia come non era mai accaduto prima. Ne è prova evidente “Serenity”, una ballata dal taglio moderno, in cui due flauti si combinano con una tromba in sordina, dall’incrocio dei tre ottoni nasce una musicalità evocativa ed incantevole, dai tratti quasi cinematografici.
Anche le lunghe improvvisazioni modali tipiche dell’India, note come “ragas”, ebbero una forte influenza sul jazz della costa occidentale degli anni ’60, tanto che molti artisti assunsero quel sapore beatnik del suono dei “ragas”, attraverso lunghe jam che utilizzavano una scala o una modalità, anziché cambi di accordo di tipo tonale. Questo approccio modale caratterizza il progetto “The Jazz Corps”, con un afflusso di ritmi latini che inondano alcune melodie dell’album, creando quel melting-pot sonoro internazionale tipico della West Coast. Molte delle melodie dell’album hanno un approccio rilassato, ma a metà della seconda parte il gruppo manifesta tutto il proprio interesse per la musica di Ornette e Don Cherry, producendosi in un lungo giro di giostra ad alta energia: dopo “Chalan Pago”, dall’ncedere latino, “The Blessing” prepara il terreno d’assalto a “Meanwhile”, otto minuti di fuoco e fiamme, ed è qui che Kirk emette l’assolo più intenso dell’album, attraverso un furioso assalto allo stritch, uno strumento che potremmo definire un’ibridazione fra un sax ed un clarinetto.
Le composizioni (tutte di Tommy Peltier) hanno ognuna un proprio atteggiamento distinto Una menzione speciale va a Freddy Rodriguez, sax tenore, contralto e flauto, un personaggio da ricercare e riscoprire; ottimo il supporto di Lynn Blessing Vibrafono, Bill Plummer basso acustico e Maurice Miller batteria; senza dimenticare Tommy Peltier arrangiatore ed autore di tutti brani, alla tromba e flicorno. Nel complesso, si tratta di un album a dir poco eccezionale, davvero unico e caratterizzato da una sorta di intricata sensibilità creativa, che presto sarebbe scomparsa, almeno temporaneamente dal mondo del jazz, schiacciata dal pesante conformismo della moda fusion. Aggiungete a tutto ciò, la ricchezza di un mini ensemble stile big band dalle tonalità musicali vivide e colorate, capace di intrecciare, contemporaneamente. più di una linea melodica con ottime improvvisazioni e scambi ed avrete un disco da aggiungere alla vostra collezione, contenti di aver fatto un ottimo acquisto.
